I 5 errori della Democrazia (Alessandro Magnoli Bocchi)
La democrazia rischia di soccombere. L’idea che la democrazia sia l’unico sistema possibile (e l’autoritarismo superato) ha perso plausibilità. Anche le democrazie più consolidate – in affanno nel gestire globalizzazione, disuguaglianza e immigrazione – sono a rischio sopravvivenza. Il mondo è in “recessione democratica”.
Ascesa e declino
La democrazia, per cinquant’anni considerata punto di arrivo. Nel 1941, solo 11 paesi al mondo erano organizzati secondo principi democratici. Ritenuta il sistema di governo cui aspirare, dopo la seconda guerra mondiale si è diffusa velocemente. Nel 2000 ben 116 paesi (il 69 per cento del totale) erano considerati democrazie.
Nell’ultimo decennio ha iniziato a perdere terreno. La tendenza ha iniziato a rovesciarsi nel 2006: negli ultimi dodici anni, molti paesi sono diventati meno democratici. La crisi del 2008 ha accentuato il trend. Alla fine del 2017, erano democrazie 97 paesi su 167 (il 58 per cento del totale). E oggi è in crisi. “Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia”: l’aforisma di Leo Longanesi ben descrive l’attuale stallo.
Già nell’Antica Grecia c’era scetticismo. Socrate venne condannato a morte con un voto di maggioranza. Platone preferiva il governo dei saggi, la “sofocrazia”. Aristotele temeva la degenerazione in oclocrazia (tirannide delle masse). Oggi, la sopravvivenza della democrazia liberale è messa in dubbio dal:
- 1) trasferimento di decisioni a livello sovranazionale;
- 2) l’aumento delle diseguaglianze;
- 3) la corruzione dell’establishment;
- 4) la debolezza dei partiti politici, venuti meno al loro compito principale: portare persone capaci alla guida della res publica;
- 5) il rigetto di competenza e autorità da parte di chi vota;
- 6) le tendenze autoritarie del populismo.
Sotto scacco, in tutto il mondo
Nel mondo, la democrazia è delegittimata top-down dalle élite e sfiduciata bottom-up dai cittadini. Per decenni, le classi dirigenti tradizionali hanno:
- 1) presidiato le istituzioni chiave (e.g.: i tribunali, i media e le forze armate);
- 2) rimosso le funzioni di controllo e garanzia (checks and balances);
- 3) governato a proprio vantaggio;
- 4) sfuggito la meritocrazia e raggiunto un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche.
Di conseguenza, i cittadini non si sentono né rappresentati né protetti – convinti che:
- 1) il potere sia in vendita a chi ha i soldi per comprarlo (democrazia prona alla plutocrazia);
- 2) la volontà popolare sia diventata secondaria rispetto alla volontà dei mercati e delle istituzioni internazionali (democrazia prona alla globalizzazione).
Nei paesi industrializzati, il sistema democratico appare rissoso e inconcludente. L’antipolitica è rampante. I partiti tradizionali, ricchi di privilegi e risorse pubbliche, hanno perso legittimità sociale e il polso della situazione. I cittadini sono confusi, non si sentono rappresentati – e votano “contro” piuttosto che “per”. I sistemi elettorali non riescono ad aggregare le preferenze individuali e la democrazia è incapace di costruire un consenso. Le risultanti coalizioni (spesso incoerenti, fragili e sfilacciate) portano all’impasse politica e alla paralisi, rafforzando le fazioni nazionalsocialiste – la cui frangia più estrema è intransigente, antidemocratica e xenofoba. Il populismo, promettendo soluzioni semplici a problemi complessi, mina ulteriormente il dibattito politico e ridesta desideri di “uomo forte”.
Molti cittadini sono convinti che non funzioni. La democrazia, prigioniera di dinamiche demografiche sfavorevoli ai più giovani, ha mal gestito l’evoluzione della società. Nonostante vivano in nazioni ricche e pacifiche, i cittadini sono scontenti, preoccupati di perdere lavoro e identità a causa di globalizzazione e cambio tecnologico. La divisione tra chi ha garanzie e chi non le ha è lacerante: alcuni sono remunerati anche se non generano risorse (i.e.: a prescindere dalla loro produttività), mentre altri – esposti senza garanzie al mercato – soffrono ogni decelerazione della congiuntura. I politici, eletti in loco, fanno promesse su temi che rispondono a dinamiche globali – e dunque impossibili da mantenere.
In molti paesi emergenti, i regimi autoritari guadagnano terreno. I paesi in cui il potere è concentrato nelle mani di pochi appaiono più efficienti e moderni. In Asia, la Cina, il Vietnam e altre nazioni – raggiungendo tassi di crescita superiori ai paesi occidentali – hanno dimostrato che non è necessario essere una democrazia per svilupparsi. In Medio Oriente e nell’Europa dell’Est, il passar del tempo ha dimostrato che la cacciata di un dittatore non implica l’avvento della democrazia; anzi, può generare instabilità: spesso il governo non funziona, l’economia soffre e il paese rapidamente peggiora. In Europa, iI nazional-populismo autoritario di Viktor Orbán – sino a pochi anni fa considerato un’eccezione – è oggi ritenuto precursore.
La democrazia è considerata di facciata. Spesso la democrazia legittima i regimi autoritari – soprattutto quando:
- 1) il suffragio è universale a patto che il vincitore sia deciso ex ante;
- 2) la “volontà popolare”, specie se plebiscitaria, giustifica e dà potere all’uomo forte;
- 3) gli spazi per la manifestazione del dissenso esistono solo formalmente, ridotti al minimo.
Limiti seri, responsabilità importanti
La democrazia è di difficile definizione. È come l’Araba Fenice: “che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa”. Nel novembre 1947, in un discorso alla Camera dei Comuni, Winston Churchill ne diede una definizione rimasta nella storia: “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Impossibile in teoria. La promessa essenziale della democrazia è che gli elettori controllino il policy making. Eppure, disegnare norme di voto che rispettino tale promessa – aggregando scelte individuali in preferenze sociali – è quasi impossibile e quasi irrealizzabile in pratica. Il policy making è influenzato dall’accesso diseguale alle informazioni, dal controllo dei media, dall’attività di lobbying e dal voto di scambio – soprattutto in contesti socioeconomici caratterizzati da:
- i) asimmetrie di potere preesistenti;
- ii) divisioni etniche e religiose;
- iii) istituzioni inadeguate.
Nel processo democratico: a) la maggioranza tende ad opprimere le minoranze; b) le minoranze – specie se potenti (e.g.: le lobby) – fanno il possibile per sottomettere e sfruttare la maggioranza, concentrando i benefici (su se stesse) e spalmando i costi (sulle masse).
In quanto sistema di governo, la democrazia ha importanti responsabilità. La lista delle manchevolezze non è corta. In ordine di gravità:
1. Si è rivelata incapace di lungimiranza e non ha promosso la sostenibilità.
- – Ha sacrificato sistematicamente il “domani” all’ “oggi”.
- – Non ha rappresentato le generazioni future – soprattutto nei paesi in cui la popolazione invecchia.
- – Non ha programmato la gestione di risorse sempre più esigue rispetto all’aumento della popolazione.
- – Non ha impedito l’insostenibilità economica, sociale e ambientale.
2. Non ha selezionato statisti di valore, leader visionari capaci di prendere decisioni per il bene comune.
- – Non ha preteso la competenza dei candidati, né prima né dopo le elezioni, e ha mandato al governo dei dilettanti.
- – Ha permesso la “scalata al potere” a chi non ha cuore l’interesse del paese.
- – Ha consentito l’elezione a chi promette “tutto a tutti” e non ha squalificato chi ha preso impegni irrealizzabili – senza preoccuparsi delle conseguenze.
- – Ha dato ai politici incentivi fuorvianti, in cicli elettorali troppo corti: i governanti sono concentrati sul “farsi rieleggere”, e sulle esigenze del proprio elettorato nella mera durata del mandato.
- – Ha chiesto agli elettori di assumersi responsabilità politiche tramite referendum.
3. Non ha regolamentato il capitalismo, non ha gestito la globalizzazione, non ha evitato le crisi economiche e non ha punito i responsabili.
- – Ha favorito – e legittimato con le elezioni – l’oligarchia e la plutocrazia.
- – Ha accettato la trasformazione del processo elettorale in clientelismo, e non ha impedito il crescere del potere delle lobby sulla politica, anzi ne ha favorito gli interessi.
- – Ha accettato la perdita di sovranità nazionale e identità locali – e dunque il proprio indebolimento.
- – Non è stata in grado di gestire il sorpasso economico da parte di nazioni non-democratiche, Cina su tutte.
- – Ha accumulato debiti senza investire, senza preoccuparsi di generare le risorse per saldarli, mettendosi alla mercé dei mercati globalizzati.
- – Ha accettato che importanti decisioni di policy vengono prese da “esperti non eletti” in assenza di un dibattito politico aperto.
- – Non ha tutelato i diritti, non ha protetto le conquiste del welfare state (stato del benessere) e non ha dato garanzie a chi non le ha.
- – Non ha impedito che i diritti (di tutti) si trasformassero in privilegi (di pochi), e ha permesso l’aumento delle disparità sociali, la disuguaglianza socioeconomica e la marginalizzazione politica.
4. Non è stata in grado di gestire il progresso tecnologico.
- – Non ha impedito la diminuzione della privacy.
- – Non ha regolamentato l’avvento della robotizzazione e della nanotecnologia, affinché non creino disoccupazione.
- – Non ha gestito la perdita di rilevanza della democrazia rappresentativa e non ha disciplinato la democrazia diretta: i cittadini votano per eleggere candidati in parlamento così come eliminano i concorrenti di un programma televisivo o firmano petizioni online.
5. Ha istituzionalizzato l’impasse decisionale, e aumentato la disillusione e il distacco dei cittadini verso la politica.
- – Non ha impedito che le istituzioni chiave siano controllate dall’élite e da gruppi di potere in competizione fra loro.
- – Ha accettato l’aumento del potere di entità senza accountability elettorale (e.g: le istituzioni transnazionali, le banche centrali, gli enti regolatori), e la mancanza di trasparenza della loro complessa governance.
- – Ha sovraccaricato i governi – le cui burocrazie non riescono a far fronte all’“eccesso di democrazia” – di richieste dal basso, da parte di comunità locali, regioni autonomiste, enti e poteri minori come ONG e lobbisti.
Che fare?
La democrazia va difesa. Secondo Norberto Bobbio “La democrazia è il più grande tentativo di organizzare una società per mezzo di procedure non violente”. È sistema di governo migliore della dittatura o dell’oligarchia, perché, rispetto a questi:
- 1) è meno impegnata in attività belliche;
- 2) offre alla generazione presente e a quelle future maggiori libertà e opportunità;
- 3) è più in grado di combattere la corruzione;
- 4) in media e nel lungo periodo, porta a una maggior ricchezza, e più condivisa;
- 5) se ben gestita, è in grado di autocorreggersi.
Ma ne vanno risolte le debolezze. John F. Kennedy soleva dire che “una delle manchevolezze della democrazia è di cercare capri espiatori per la sua debolezza”. Suggerire riforme e riscriverne le regole non equivale a (ri)proporre sistemi autoritari, bensì a riconoscerne e risolverne le vulnerabilità più importanti, in ottica di lungo periodo. Va ammesso: la democrazia è una costruzione fragile, è fallibile e può venir meno con facilità. “L’unico modo di risolvere i problemi è di conoscerli, di sapere che ci sono”, diceva in proposito Giovanni Sartori.
Puntare sul merito per salvare la democrazia
Si preparano sfide epocali: lo scuolabus in cui siedono i nostri figli sta per affrontare i tornanti di una strada a strapiombo. Globalizzazione, rischi geopolitici, integrazione nell’economia globale, turbolenze sui mercati finanziari, erosione dei diritti, possibili crisi sociali, inquinamento di aria e acqua e degrado ambientale. Chi vorremmo alla guida? La domanda non può essere considerata provocatoria: è necessaria una classe politica dotata delle necessarie competenze – e di visione di lungo periodo. Politici e statisti capaci devono ingegnarsi a ripensare la democrazia, coniugandola con la globalizzazione.
La democrazia ha in sé i germi della sua scomparsa. Se affossata dalle prevaricazioni dell’élite e dal disprezzo dei cittadini, la democrazia cade nell’autoritarismo – proprio attraverso il suffragio universale. La democrazia muore nel voto che porta a governi inadeguati, nelle politiche mediocri, nell’indebolimento delle istituzioni, nella perdite di certezze dei ceti medi, nella percezione dell’élite come casta privilegiata e corrotta, nella frattura tra establishment e i cittadini, nella bassa partecipazione politica, nella paura del futuro, nel risveglio di tendenze autoritarie. Affinché rimanga il sistema prevalente, le classi dirigenti devono essere:
- 1) competenti (e affinché lo siano, deve esserlo anche chi le vota);
- 2) legittimate dal riconoscimento popolare.
Ridurre le rendite di posizione dell’élite, puntando sul merito. L’agenda è nota, le priorità ben conosciute:
- a) ridurre i monopoli e le rendite di posizione;
- b) rafforzare le funzioni di controllo e garanzia (checks and balances);
- c) agilizzare il sistema giudiziario e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione – con particolare attenzione ai servizi pubblici (i.e.: educazione, sanità, acqua, rifiuti, energia, trasporti – soprattutto a livello locale);
- d) e ben più difficile, favorire la meritocrazia.
Ripensare il diritto di voto. Nelle democrazie a suffragio universale, ogni cittadino può eleggere chi legifera e governa. De iure, la “titolarità” del diritto di voto (uguaglianza formale) implica “competenza” nell’esercitarlo (uguaglianza sostanziale). De facto, l’attribuzione del diritto non implica la capacità di servirsene: la maggioranza dei votanti non è in grado di riconoscere il miglior candidato, o la policy migliore. Per dirla con Harry Emerson Fosdick: “La democrazia è basata sulla convinzione che nella gente comune ci siano possibilità non comuni”.
Il risultato è un indebolimento del sistema: se chi sceglie non ha le necessarie capacità, l’eletto è spesso inadatto a gestire i problemi collettivi. Per rafforzare la democrazia, andrebbe invece riconosciuta la differenza di valore dovuta alla fatica individuale (disuguaglianza sostanziale). Il diritto al voto dovrebbe essere ricompensa. Senza pretesa di arrivare al modello platonico di “sofocrazia”, per poter scegliere i governanti dovrebbe esser necessaria una preparazione politica elementare, garantita limitando il suffragio a un livello minimo di istruzione – come già succede in casi specifici (e.g.: immigrati legali e minorenni). Tucidide ne “La guerra del Peloponneso” (I, 22) attribuisce a Pericle la seguente frase: “Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla”.
Ed esigere competenza da chi comanda. L’elezione deve essere una designazione di capacità. Chi governa deve:
- 1) possedere requisiti di candidabilità – un misto di virtù (aretè) e competenza (episteme): preparato, lungimirante, coraggioso – capace di auto-determinazione e dotato di quella “libertà di pensiero” che si conquista solo con la formazione permanente;
- 2) essere migliore – in quanto a merito individuale – di quant’altri ambiscano alla sua posizione.
In altre parole, anche l’eleggibilità andrebbe limitata per:
- a) grado di istruzione;
- b) precedenti e dimostrate abilità (il curriculum);
- c) esperienza nell’esercizio di funzioni pubbliche. Se no, a detta di Henri-Frédéric Amiel, si finisce per delegare “la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci”.
Sempre Tucidide – nel “Discorso agli Ateniesi” (Storie, II, 34-38) – attribuisce a Pericle la seguente frase: “Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento”. Per entrare nell’élite, i candidati devono essere competenti. Se no si spacca tutto.