Brexit, i limiti e i rischi della democrazia diretta (Danilo Taino)
La democrazia diretta non è una semplificazione della politica. Spesso la complica; e la può avvilire. L’avere posto la scelta sulla Brexit a referendum, nel 2016, sta facendo vacillare l’opinione pubblica del Paese culla del liberalismo e della democrazia; e rischia di spegnere la brillante energia a cui ci aveva abituato la «madre di tutti i parlamenti», Westminster. Avevamo sempre pensato che una caratteristica invidiabile al Regno Unito fosse la capacità di produrre una classe dirigente di buona qualità: l’averla disintermediata con la consultazione diretta sull’appartenenza alla Ue ha aiutato a farla sembrare la membership di un vecchio, eccentrico ma inutile club di St. James. Il risultato è che la mediocre Theresa May appare, nella sua testardaggine, come l’unica a pensare che la democrazia non sia la scelta tra un sì e un no. Lo strumento del referendum non è una sciocchezza. Mettere nelle mani dei cittadini la decisione su questioni rilevanti è un momento alto di democrazia. Può però essere fatto su questioni risolvibili con una semplice scelta binaria: da una parte o dall’altra e finita lì. Come si è visto nei mesi scorsi, l’essenza della Brexit sta invece nel modo in cui Londra intende uscire dalla Ue, negli accordi che può stipulare con Bruxelles, nel grado di libertà che intende mantenere. Appunto: il grado. Cioè quel complesso di decisioni, alcune lineari ma moltissime complicate e a soluzione multipla, che sono poi le scelte politiche, quelle che non possono essere decise da un sì e da un no.
Il referendum sulla Brexit è stato simile a un genitore che avesse proposto alla famiglia di andare in vacanza senza dire dove: i membri potevano rinunciare ma, se accettavano, solo una volta in auto avrebbero conosciuto la destinazione. Se si fosse andati al mare, chi ama la montagna avrebbe forse preferito rimanere a casa. La scelta non era binaria, andare in vacanza o meno: sapere dove andare sarebbe stata un’informazione necessaria per decidere se accettare la proposta del genitore. E binaria non sarebbe nemmeno la scelta in un nuovo referendum, se davvero i politici britannici dovessero intraprendere l’avventura, forse più rischiosa di quella del 2016. Se il primo referendum è stato l’annichilimento della politica, non si capisce perché non dovrebbe esserlo anche il secondo.
Theresa May ha fatto un disastro nella gestione del post-referendum. Non solo nella trattativa con Bruxelles. Soprattutto, non ha dato al Paese un minimo di visione su cosa sarà, o sarebbe stato, il Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione europea. Ha interpretato la sua leadership in un modo del tutto difensivo e non era quello che ci voleva per unire un’opinione pubblica divisa. La sua determinazione a sostenere la necessità di trovare un accordo con i 27 membri della Ue e il suo rifiuto di navigare verso un nuovo referendum vanno però a suo onore; e sono il segno che, dopo un sì o un no, la necessità di fare scelte politiche riprende con prepotenza il suo posto.
Non è facile stabilire quali materie è il caso di ammettere al vaglio del referendum e quali no. La Costituzione italiana prevede che i trattati internazionali non siano sottoposti alla consultazione popolare diretta. Il clima politico europeo, lo spirito dei tempi se vogliamo, è però formato anche da spinte che prevedono il ricorso continuo alla cosiddetta democrazia diretta. Sono tensioni che esprimono anche un’insoddisfazione per come la democrazia ha funzionato negli anni passati e meritano risposte. Di base, però, la vicenda della Brexit dimostra che le scorciatoie non esistono. Le scelte politiche tornano nelle mani dei governi e dei partiti anche dopo un referendum: solo più difficili, perché nel frattempo hanno radicalizzato le divisioni su logiche binarie mentre i problemi binari non sono.
La «madre di tutti i parlamenti» può forse ancora dare un contributo all’idea di democrazia se è vero che le crisi aguzzano la mente. Oggi, i politici britannici non sono in grado di trovare una soluzione al pasticcio in cui hanno condotto il Paese. Forse, dovrebbero davvero ridare la parola ai cittadini. Non attraverso un referendum: con una sana, tradizionale elezione politica nella quale i partiti si presentino con programmi chiari sulla Brexit e su quale genere di rapporto intendono avere con Bruxelles. Potrebbe vincere il «socialista» Jeremy Corbyn: in quel caso, pazienza per gli altri. Ma probabilmente è questa l’unica strada che al Regno Unito rimane per tornare a essere quel modello di democrazia che il mondo, Europa compresa, gli riconoscono. In fondo, «la peggiore forma di governo a parte tutte le altre» di cui parlava Churchill era la democrazia parlamentare. Non quella diretta.
Il referendum sulla Brexit è stato simile a un genitore che avesse proposto alla famiglia di andare in vacanza senza dire dove: i membri potevano rinunciare ma, se accettavano, solo una volta in auto avrebbero conosciuto la destinazione. Se si fosse andati al mare, chi ama la montagna avrebbe forse preferito rimanere a casa. La scelta non era binaria, andare in vacanza o meno: sapere dove andare sarebbe stata un’informazione necessaria per decidere se accettare la proposta del genitore. E binaria non sarebbe nemmeno la scelta in un nuovo referendum, se davvero i politici britannici dovessero intraprendere l’avventura, forse più rischiosa di quella del 2016. Se il primo referendum è stato l’annichilimento della politica, non si capisce perché non dovrebbe esserlo anche il secondo.
Theresa May ha fatto un disastro nella gestione del post-referendum. Non solo nella trattativa con Bruxelles. Soprattutto, non ha dato al Paese un minimo di visione su cosa sarà, o sarebbe stato, il Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione europea. Ha interpretato la sua leadership in un modo del tutto difensivo e non era quello che ci voleva per unire un’opinione pubblica divisa. La sua determinazione a sostenere la necessità di trovare un accordo con i 27 membri della Ue e il suo rifiuto di navigare verso un nuovo referendum vanno però a suo onore; e sono il segno che, dopo un sì o un no, la necessità di fare scelte politiche riprende con prepotenza il suo posto.
Non è facile stabilire quali materie è il caso di ammettere al vaglio del referendum e quali no. La Costituzione italiana prevede che i trattati internazionali non siano sottoposti alla consultazione popolare diretta. Il clima politico europeo, lo spirito dei tempi se vogliamo, è però formato anche da spinte che prevedono il ricorso continuo alla cosiddetta democrazia diretta. Sono tensioni che esprimono anche un’insoddisfazione per come la democrazia ha funzionato negli anni passati e meritano risposte. Di base, però, la vicenda della Brexit dimostra che le scorciatoie non esistono. Le scelte politiche tornano nelle mani dei governi e dei partiti anche dopo un referendum: solo più difficili, perché nel frattempo hanno radicalizzato le divisioni su logiche binarie mentre i problemi binari non sono.
La «madre di tutti i parlamenti» può forse ancora dare un contributo all’idea di democrazia se è vero che le crisi aguzzano la mente. Oggi, i politici britannici non sono in grado di trovare una soluzione al pasticcio in cui hanno condotto il Paese. Forse, dovrebbero davvero ridare la parola ai cittadini. Non attraverso un referendum: con una sana, tradizionale elezione politica nella quale i partiti si presentino con programmi chiari sulla Brexit e su quale genere di rapporto intendono avere con Bruxelles. Potrebbe vincere il «socialista» Jeremy Corbyn: in quel caso, pazienza per gli altri. Ma probabilmente è questa l’unica strada che al Regno Unito rimane per tornare a essere quel modello di democrazia che il mondo, Europa compresa, gli riconoscono. In fondo, «la peggiore forma di governo a parte tutte le altre» di cui parlava Churchill era la democrazia parlamentare. Non quella diretta.