Estratti di storia
Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi Dino Compagni
Entrorono i nuovi priori a dì VIII di novembre 1301: e furono Baldo Ridolfi, Duccio di Gherardino Magalotti, Neri di messer Iacopo Ardinghelli, Ammannato di Rota Beccannugi, messer Andrea da Cerreto, Ricco di ser Compagno degli Albizi, Tedice Manovelli gonfaloniere di giustizia; pessimi popolani, e potenti nella loro parte. Li quali feciono leggi, che i priori vecchi in niuno luogo si potessono raunare, a pena della testa. E compiuti i sei dì utili stabiliti a rubare, elessono per podestà messer Cante Gabrielli d'Agobbio; il quale riparò a molti mali e a molte accuse fatte, e molte ne consentì.
Libro secondo - Capitolo I - Il Nettuno
Il detto Bandinello aveva inteso come io avevo fatto quel Crocifisso che io ho detto di sopra: egli subito messe mano innun pezzo di marmo, e fece quella Pietà che si vede nella chiesa della Nunziata. E perché io avevo dedicato il mio Crocifisso a Santa Maria Novella, e di già vi avevo appiccati gli arpioni per mettervelo, solo domandai di fare sotto i piedi del mio Crocifisso, in terra, un poco di cassoncino, per entrarvi dipoi che io sia morto. I detti frati mi dissono che non mi podevano concedere tal cosa, sanza il dimandarne i loro Operai; ai quali io dissi: - O frati, perché non domandasti voi in prima gli Operai nel dar luogo al mio bel Crocifisso, che senza lor licenzia voi mi avete lasciato mettere gli arpioni e l'altre cose? - E per questa cagione io non volsi dar piú alla chiesa di Santa Maria Novella le mie tante estreme fatiche, se bene dappoi e' mi venne a trovare quegli Operai e me ne pregorno.
Subito mi volsi alla chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo che io volevo a Santa Maria Novella, quegli virtuosi frati di detta Nunziata tutti d'accordo mi dissono che io lo mettessi nella lor chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito questo il Bandinello, e' si misse con gran sollecitudine a finire la sua Pietà, e chiese alla Duchessa che gli facessi avere quella cappella che era de' Pazzi; la quale s'ebbe con difficultà: e subito che egli l'ebbe, con molta prestezza ei messe sú la su opera, la quale non era finita del tutto, che egli si morí.
La Duchessa disse che ella lo aveva aiutato in vita e che lo aiuterebbe ancora in morte; e che se bene gli era morto, che io non facessi mai disegno d'avere quel marmo. Dove Bernardone sensale mi disse un giorno, incontrandoci in villa, chi la Duchessa aveva dato il marmo; al quale io dissi: - Oh sventurato marmo! certo che alle mali del Bandinello egli era capitato male, ma alle mani dell'Ammanato gli è capitato cento volte peggio! - Io avevo aùto ordine dal Duca di fare il modello di terra, della grandezza che gli usciva del marmo, e mi aveva fatto provvedere di legni e terra, e mi fece fare un poco di parata nella loggia, dove è il mio Perseo, e mi pagò un manovale.
Io messi mano con tutta la sollicitudine che io potevo, e feci l'ossatura di legno con la mia buona regola, e felicemente lo tiravo al suo fine, non mi curando di farlo di marmo, perché io conoscevo che la Duchessa si era disposta che io noll'avessi, e per questo io non me ne curavo: solo mi piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi promettevo che, finito che io lo avessi, la Duchessa, che era pure persona d'ingegno, avvenga che la l'avessi dipoi veduto, io mi promettevo che e' le sarebbe incresciuto d'aver fatto al marmo e a sé stessa un tanto smisurato torto. E' ne faceva uno Giovanni Fiammingo ne' chiostri di Santa Croce, e uno ne faceva Vincenzio Danti, perugino, in casa messer Ottaviano de' Medici; un altro ne cominciò il figliuolo del Moschino a Pisa, e un altro lo faceva Bartolomeo Ammannato nella Loggia, ché ce l'avevano divisa.
Quando io l'ebbi tutto ben bozzato, e volevo cominciare a finire la testa, che di già io gli avevo dato un poco di prima mana, il Duca era sceso del Palazzo, e Giorgetto pittore lo aveva menato nella stanza dell'Ammannato, per fargli vedere il Nettunno, in sul quale il detto Giorgino aveva lavorato di sua mano di molte giornate insieme co 'l detto Ammannato e con tutti i sua lavoranti. In mentre che 'l Duca lo vedeva, e' mi fu detto che e' se ne sattisfaceva molto poco; e se bene il detto Giorgino lo voleva empiere di quelle sue cicalate, il Duca scoteva 'l capo, e voltosi al suo messer Gianstefano, disse: - Va e dimanda Benvenuto se il suo gigante è di sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista -.
Il detto messer Gianstefano molto accortamente e benignissimamente mi fece la imbasciata da parte del Duca; e di piú mi disse che se l'opera mia non mi pareva che la fussi ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi: perché il Duca conosceva benissimo, che io avevo aùto pochi aiuti a una cosí grande impresa. Io dissi che e' venissi di grazia, e se bene la mia opera era poco innanzi, lo ingegno di Sua Eccellenzia illustrissima si era tale che benissimo lo giudicherebbe quel che ei potessi riuscire finito. Cosí il detto gentile uomo fece la imbasciata al Duca, il quale venne volentieri: e subito che Sua Eccellenzia entrò nella stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei mostrò d'averne molta sattisfazione: di poi gli girò tutto all'intorno, fermandosi alle quattro vedute, che non altrimenti si arebbe fatto uno che fussi stato peritissimo dell'arte; di poi fece molti gran segni e atti di dimostrazione di piacergli, e disse solamente: - Benvenuto, tu gli hai a dare solamente una ultima pelle -; poi si volse a quei che erano con Sua Eccellenzia, e disse molto bene della mia opera, dicendo: - Il modello piccolo, che io vidi in casa sua, mi piacque assai; ma questa sua opera si ha trapassato la bontà del modello.
Trovandomi in quel modo afflitto, a ogni modo andavo allavorare alla ditta Loggia il mio gigante: tanto che in pochi giorni appresso il gran male mi sopra fece tanto che ei mi fermò nel letto. Subito che la Duchessa sentí che io ero ammalato, la fece dare la opera del disgraziato marmo libera a Bartolomeo dell'Ammannato, il quale mi mandò a dire per messer… che io facessi quel che io volessi del mio cominciato modello, perché lui si aveva guadagnato il marmo. Questo messer... si era uno degli innamorati della moglie del detto Bartolomeo Ammannato; e perché gli era il piú favorito come gentile e discreto, questo detto Ammannato gli dava tutte le sue comodità, delle quali ci sarebbe da dire di gran cose. Imperò io non voglio fare come il Bandinello, suo maestro, che con i ragionamenti uscí dell'arte; basta che io dissi io me l'ero sempre indovinato; e che dicessi a Bartolomeo che si affaticassi, acciò che ei dimostrassi di saper buon grado alla fortuna di quel tanto favore, che cosí immeritamente la gli aveva fatto. Cosí malcontento mi stavo in letto, e mi facevo medicare da quello eccellentissimo uomo di maestro Francesco da Monte Varchi, fisico, e insieme seco mi medicava di cerusía maestro Raffaello de' Pilli; perché quel silimato mi aveva di sorte arso il budello del sesso, che io non ritenevo punto lo sterco. E perché il detto maestro Francesco, conosciuto che il veleno aveva fatto tutto il male che e' poteva, perché e' non era stato tanto che gli avessi sopra fatta la virtú della valida natura, che lui trovava in me, imperò mi disse un giorno: - Benvenuto, ringrazia Iddio, perché tu hai vinto; e non dubitare, che io ti voglio guarire, per far dispetto ai ribaldi che t'hanno voluto far male -. Allora maestro Raffaellino disse: - Questa sarà una delle piú belle e delle piú difficil cure, che mai ci sia stato notizia: sappi, Benvenuto, che tu hai mangiato un boccone di silimato -. A queste parole maestro Francesco gli dette in su la voce e disse: - Forse fu egli qualche bruco velenoso -. Io dissi che certissimo sapevo che veleno gli era e chi me l'aveva dato: e qui ogniuno di noi tacette. Eglino mi attesono a medicare piú di sei mesi interi; e piú di uno anno stetti, innanzi che io mi potessi prevalere della vita mia.
Libro secondo/Capitolo CVI
In questo tempo il Duca se n'andò affare l'entrata a Siena, e l'Ammannato era ito certi mesi innanzi a fare gli archi trionfali. Un figliuolo bastardo, che aveva l'Ammannato, si era restato nella Loggia, e mi aveva levato certe tende che erano in sul mio modello del Nettunno, che per non essere finito io lo tenevo coperto. Subito io mi andai a dolere al signor don Francesco, figliuolo del Duca, il quale mostrava di volermi bene, e gli dissi come e' mi avevano scoperto la mia figura, la quale era imprefetta; che se la fussi stata finita, io non me ne sarei curato. A questo mi rispose il detto Principe, alquanto minacciando col capo e disse: - Benvenuto, non ve ne curate che la stia scoperta, perché e' fanno tanto piú contra di loro; e se pure voi vi contentate che io ve la faccia coprire, subito la farò coprire -. E con queste parole Sua Eccellenzia illustrissima aggiunse molte altre in mio gran favore, alla presenza di molti Signori. Allora io gli dissi, che lo pregavo Sua Eccellenzia mi dessi comodità che io lo potessi finire, perché ne volevo fare un presente insieme con il piccol modellino a Sua Eccellenzia. Ei mi rispose che volentieri accettava l'uno e l'altro, e che mi farebbe dare tutte comodità che io domanderei. Cosí io mi pasce' di questo poco del favore, che mi fu causa di salute della vita mia; perché, essendomi venuti tanti smisurati mali e dispiaceri a un tratto, io mi vedevo mancare: per quel poco del favore mi confortai con qualche speranza di vita.
Dino Compagni fu uno de’ Priori cacciati in quel giorno; e per ciò è certamente che non gli dà l’animo di narrarne distesamente. Ma alcuni particolari interessanti ci son pure da lui narrati. Mentre entrava messer Corso, egli Dino e gli altri Priori erano trattenuti a palazzo de’ baroni di messer Carlo, e da messer Cante da Gubbio ed altri, i quali giuravan loro che il signore si tenea tradito, e che farebbe impiccar messere Corso. Ma "non giurò messer Carlo il vero; perchè di sua saputa venne". Poi accorse Lapo Salterelli e lo Schiatta Cancellieri, consigliando si mandassero in custodia a Carlo i più potenti delle due parti; e scrittine i nomi, Schiatta, che era capitano dell’armi, comandò loro d’andare; e andati, messer Carlo rilasciò i Neri, e ritenne presi i Bianchi. "O buono Re Luigi" (esclama quì Dino, invocando la memoria del santo re Ludovico IX), "che tanto [p. 324]temesti Iddio! ove è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergogna? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real Casa di Francia! Il maestro Ruggieri, giurato alla detta casa, essendo ito al suo convento, gli disse:sotto di te perisce una nobil Città; al quale rispose, che niente ne sapea". Quando i Priori ne fecero sonare la campana grossa di Palagio, la gente sbigottita non trasse, e di casa i Cerchi non uscì uomo a cavallo nè a piè armato. Alcuni Adimari vennero, e vedendosi soli, se ne andarono, rimanendo la piazza abbandonata.
Cacciati così i Priori di palazzo addì 5, rimase la Città alcuni giorni senza magistrati. "Gli uomini che temeano i loro adversari, si nascondeano per le case de’ loro amici. L’uno nimico offendea l’altro; le case si cominciavano ad ardere, le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl’impotenti. I [p. 325]Neri potenti domandavano danari a’ Bianchi. Maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi huomini; e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: Che fuoco è quello? E eragli risposto che era una capanna, quando era un ricco palazzo. E questo mal fare durò giorni sei, chè così era ordinato. Il contado ardea da ogni parte. I Priori, per piatà della Città, vedendo multiplicare il mal fare, chiamarono merzè a molti popolani potenti, pregandoli per Dio, havessono piatà della loro Città: i quali niente ne vollono fare; e però lasciarono il priorato". Ma già, addì 7, raunavasi il consiglio sotto un nuovo capitano, messer Carlo de’ Marchesi di Monticalo; ed ivi, troppo male invocando i nomi di Dio e de’ Santi protettori di Firenze, "ad esaltazione della Chiesa Romana e del Papa e dei suoi fratelli i cardinali, e del serenissimo signor Carlo per la grazia di Dio re di Gerusalem e di Sicilia, figlio già del Re Carlo di Francia, costituito per la medesima Santa Madre Chiesa [p. 326]paciero nella provincia Toscana, ad onore, bene, pacifico e tranquillo stato del popolo e Comune di Firenze, e ad impedire non si facessero" (già eran fatti e continuavano a farsi) "incendii, devastazioni, ruberie, offensioni ed omicidii nella Città, nel comitato e distretto di Firenze", facevansi sei priori e ’l Gonfaloniere nuovi, con gran balia e autorità, per un mese o più, fino all’epoca solita del 15 dicembre. Furono questi Priori nuovi, non più come s’era trattato, delle due parti; ma naturalmente tutti della vincitrice Nera e, al dir del Compagni, "pessimi popolani": Baldo Ridolfi, Duccio Magalotti, Neri Ardinghelli, Ammannato Beccanugi, messer Andrea da Cerreto e Ricco degli Albizzi; con Tedice Manovelli per Gonfaloniere. Entrarono in uficio addì 11 novembre in vece de’ cacciati, e stèttevipoi fino ai 15 decembre, epoca legale delle nuove elezioni; e pochi dì dopo essere entrati, elessero a Podestà messer Cante Gabrielli da Gubbio, "il quale riparò a molti mali e a molte accuse, e molte ne consentì".
[p. 327]Seguono nella narrazione del buon Compagni, quattro grandi facciate di lamenti e descrizioni di persecuzioni; le quali, perchè le persecuzioni di tutti i tempi si assomigliano e son fastidiose, noi passeremo brevemente: ricercati i Priori vecchi perchè desser danari, e lasciati star solamente per timor dello sdegno pubblico che se n’alzò; Rinuccio Rinucci, un ricco popolano, in villa a cui messer Carlo andava a uccellare, messo a taglia di fiorini quattro mila, e rilasciato poi per ottocento; i Bostichi, che prendevano in guardaterra i beni d’un loro amico per fiorini cento, e poi rubavano i beni, e collavano gli uomini in casa loro in Mercato Nuovo, nel mezzo della Città, di mezzodì; poi disonestà fatte a vergini e donne; pupilli rubati, uomini spogliati; accuse, condanne, e massimamente taglie imposte. "Patto, pietà nè mercè in niunno mai si trovò. Chi più dicea muoiano, muoiano i traditori, colui era il maggiore. Molti di parte Bianca, antichi Ghibellini per lunghi tempi, furono ricevuti da’ Neri in compagnia loro, solo per mal fare". Tuttavia niuno [p. 328]per allora fu cacciato; ma naturalmente, uscivano volontarii molti de’ perseguitati, e rimanevano fuori coloro che vi si trovavano. Gli emigrati sogliono precedere, ma in breve confondersi co’ cacciati.
Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana, Volume 3
...una croce vermiglia sopra il palagio de’ Priori. Fu la sua lista ampia più che palmi uno e mezzo: e l’una linea era di lunghezza braccia venti in apparenza, e quella attraverso un poco minore. La quale durò per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a correre due aringhi. Onde la gente, che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemmo comprendere, che Iddio era fortemente contro alla nostra citta crucctato.
Gli uomini che temeano i loro avversarii, si nascondeano per le case de’ loro amici. L’uno nimico offendea l'altro: le case si cominciavano ad ardere: le ruberie si faceano, e fuggivansi gli arnesi alle case degl’impotenti. I Neri potenti domandavaro danari a’ Bianchi: maritavansi le fanciulle a forza: uccideansi uomini: e quando una casa ardea forte, messer Carlo domandava: che fuoco é quello? E eragli risposto , che era una capanna , quando era un ricco palagio. E questo mal fare darò giorni sei: chd così era ordinato. Il contado ardea da ogni parte. I Priori, per pietà della citta, vedendo moltiplicare il mal fare, chiamarono mercé a molti popolani potenti , pregandoli per Dio avessono pietà della loro citta: i quali niente ne vollono fare, e però lasciarono il priorato.
Entrarono i nuovi Priori a dì 1 di Novembre 1301: e furono Baldo Ridolfi, Duccio di Gherardino Magalotti, Neri di messer Jacopo Ardinghelli, Ammannato di Rota Beccanugi, messer Andrea da Cerreto, Ricco di ser Compagno degli Albizzi e Tedice Manovelli gonfaloniere di giustizia, pessimi popolani...
Dino Compagni - «Piangete sopra voi e la vostra città
O malvagi cittadini, procuratori della distruzione della vostra città, dove l’avete condotta! E tu, Ammannato di Rota Beccannugi, disleale cittadino, iniquamente ti volgesti a’ priori e con minaccie studiavi le chiavi si dessono, guardate le vostre malizie dove ci ànno condotto!
Nota su Dino Compagni
Compagni rifiuta il disegno della storia universale e il procedimento annalistico e si concentra sugli anni fra il 1280 e il 1312 e in particolare sulle vicende degli anni 1300-1308, segnati dal conflitto fra Bianchi e Neri e dalla vittoria di questi ultimi e di Carlo di Valois. Egli dichiara di voler testimoniare solo "il vero delle cose certe" rifacendosi a quanto ha direttamente visto e sentito oppure a quanto gli è stato detto da persona degna di fede. Tuttavia la sua Cronica è opera di parte, piena di passioni e di risentimenti morali e politici: l'autore non esita a dichiarare le proprie posizioni attraverso apostrofi ai cittadini o la rappresentazione a tinte fosche e drammatiche delle malvagità degli avversari politici e del loro capo, Corso Donati. La struttura dell'opera "rivela la continua alternanza tra il resoconto e la riflessione moralistica, tra il fatto oggettivamente narrato e l'addolorato sentenziare in forme di monologo" (Petrocchi). I fatti non vengono indagati nei loro presupposti sociali ed economici o comunque nell'oggettività delle loro cause, ma spiegati come conseguenza di atteggiamenti psicologici e morali dei protagonisti. D'altra parte, la memoria degli avvenimenti è ancora calda e viva, e conferisce alla pagina della Cronica l'immediatezza di un diario. Il più importante studioso di Dino Compagni fu Isidoro del Lungo, che difese l'autenticità della Cronica da un ampio movimento di studiosi, tra cui il filologo Pietro Fanfani, autore di Dino Compagni vendicato dalla calunnia di scrittore della Cronaca e di altri numerosi scritti, che aveva inteso dimostrarne la falsità.
LE TRE NOBILTÀ - LA LEGISLAZIONE NOBILIARE DEL GRANDUCATO DI TOSCANA (1750)
47. BECCANUGI AMMANNATO – (12 gennaio 1807). Ammannato e canonico Aldobrandino, fratelli ed
abitanti a Castiglion Fiorentino. Si dissero discendenti da un primo antenato riseduto tra i priori della
Repubblica fiorentina dal 1290 al 1307511 [LXXV, 2].