Il Libro dell'Apocalisse


La nuova evangelizzazione
Nella difficile situazione in cui si è trovato Giovanni con le sue Chiese dopo il suo ritorno da Patmos, il libro dell’Apocalisse doveva rappresentare un’autentica opera di nuova evangelizzazione, cioè l’annunzio del messaggio evangelico ad una comunità che è già cristiana, ma per disparati motivi entra in crisi di fronte a gravi novità che la sconvolgono. Tale opera trova nella celebrazione liturgica il suo proprio ambiente vitale che ne illumina il contenuto e ne chiarisce il senso. Il libro dell’Apocalisse, dunque, è iniziato e concluso da un dialogo liturgico, conosce diversi interventi espliciti rivolti al gruppo di ascolto, adopera volentieri immagini tratte dalla liturgia di Israele e riporta notevoli brani lirici che hanno forma e contenuto celebrativo.

Nella celebrazione liturgica la comunità cristiana ricorda il passato salvifico degli interventi di Dio, vive al presente il suo dono di grazia e rinnova l’attesa ed il desiderio del compimento finale. Nella liturgia, dunque, il gruppo di ascolto si impegna a leggere ed interpretare la propria storia nella luce del Cristo Risorto e a questo lo stimola ripetutamente l’autore con interventi diretti: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese», «qui sta la costanza», «qui sta la sapienza» . La comunità è invitata ad entrare nelle visioni proposte, a comprenderne il senso e ad applicarlo concretamente alla propria realtà.

L’Apocalisse, quindi, in quanto opera radicata nella liturgia, è essenzialmente celebrazione del mistero pasquale di Cristo, evento fondamentale che costituisce la chiave di lettura ed il principio dinamico di una storia totalmente nelle mani di Dio. Per questo l’opera è idealmente collocata «nel giorno del Signore»: giorno escatologico dell’intervento di YHWH, quindi della Pasqua, giorno di domenica, ovvero della comunità cristiana che celebra la risurrezione di Cristo. Nel giorno di domenica l’assemblea liturgica incontra il Cristo risorto (è questo il senso della prima visione), vive l’esperienza dello Spirito e comprende attivamente il senso della propria storia. Per questo l’opera è ricca di canti festosi, a differenza di molte altre apocalissi, piene di pianti e lamenti.

Inserite in questa dimensione orante, le pagine dell’Apocalisse non si presentano più come l’artificiosa descrizione di una realtà inaccessibile e strana, enigma stravagante per esegeti fantasiosi; mostrano invece la riflessione corale di una comunità che riconosce il dono della propria vita nuova, frutto dell’intervento «escatologico» del Messia, e che, nello stesso tempo, anela al compimento finale.

L’autore
Gli antichi codici biblici e la tradizione unanime presentano quest’opera con il titolo «Apocalisse di Giovanni»: chiaramente il genitivo ne indica l’autore. Ma chi è questo Giovanni? E’ Giovanni l’apostolo e si identifica con l’evangelista del IV Vangelo oppure è un’altra persona? La questione dell’autore, pur non essendo molto importante ai fini dell’esegesi, è stata lungamente dibattuta fin dall’antichità, ma soprattutto negli ultimi due secoli, senza tuttavia giungere ad una soluzione che trovi d’accordo tutti gli studiosi.

L’autore di questa riflessione liturgica si presenta ripetutamente nel corso dell’opera con il nome di Giovanni; dall’insieme dell’opera, inoltre, possiamo ricavare ancora un’indicazione preziosa secondo cui l’autore si presenta con una connotazione «profetica». Questi dati interni sono importanti, ma non decisivi: non ci dicono chi sia questo Giovanni; nessun elemento esplicito lo identifica con l’apostolo, l’evangelista, il figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo; ma non troviamo neppure espliciti elementi che contraddicano questa identificazione. Non dire espressamente che è l’apostolo, non significa negare che sia l’apostolo!

Per avere ulteriori dati, dobbiamo ricorrere agli scritti patristici, che ci permettono di conoscere la viva tradizione della Chiesa e l’opinione che circolava nei primi secoli sull’autore dell’Apocalisse. La più antica testimonianza al riguardo è del filosofo Giustino, che visse proprio a Efeso verso il 132, dove ambientò il «Dialogo con Trifone», in cui attribuisce l’Apocalisse a «Giovanni, uno degli apostoli di Cristo». Portatore della viva tradizione è anche il vescovo Ireneo, il quale, nella sua grande opera «Contro le eresie», composta verso il 180, chiama l’autore dell’Apocalisse «Giovanni, il discepolo del Signore», esattamente come l’evangelista. 

Anche la scuola alessandrina è testimone di questa tradizione: Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-254) parlano dell’Apocalisse come opera dell’apostolo Giovanni e non sembrano conoscere alcuna obiezione su questo punto. Ugualmente affermano gli scrittori latini: Tertulliano (II-III sec.), Ippolito (III sec.), Cipriano, vescovo di Cartagine dal 249 al 258; conferma la stessa opinione il frammentario Canone Muratoriano, scritto a Roma verso la fine del II secolo.

La prima opinione discorde risulta quella di Gaio, scrittore romano vissuto fra il II e il III secolo, il quale, secondo notizie riportate da Eusebio e da Dionigi bar Salibi, considerava non giovannei il IV Vangelo e l’Apocalisse, attribuendoli all’eretico Cerinto. A Gaio, inoltre, vengono abitualmente accostati quelli che Epifanio chiama gli «Alogi», ovvero gli irragionevoli avversari del Logos, che si opponevano alle opere giovannee e le attribuivano a Cerinto. Sulla stessa linea si colloca Dionigi, vescovo di Alessandria dal 248 al 265, il quale, secondo le notizie riportate da Eusebio, per confutare l’insegnamento di Nepote vescovo di Arsinoe che interpretava in modo letterale il millennio, affronta lo studio dell’Apocalisse in chiave polemica, ritiene esagerati coloro che attribuiscono l’opera a Cerinto; non rifiuta il valore ispirato del libro e la sua canonicità, ma, dopo averlo analizzato con attenzione letteraria, conclude che l’autore deve essere «un altro Giovanni», non l’apostolo evangelista. 

Nessuna notizia storica e nessun dato tradizionale viene citato da Dionigi per accreditare la propria opinione: si tratta di un semplice ragionamento ipotetico da studioso, basato su criteri letterari di somiglianza e differenza. Lo storico Eusebio (265-340) è testimone di qualche incertezza nell’accoglienza dell’Apocalisse; nella chiesa di Siria, soprattutto, l’opera non godeva buona stima; molto probabilmente la causa è da ricercarsi nell’eccessivo e deformato uso che ne facevano sette eretiche come i montanisti. Eusebio sembra trovare nei detti di Papia la conferma dell’ipotesi di Dionigi ed attribuisce l’Apocalisse a Giovanni il presbitero. Ma l’affermazione non è fondata storicamente e si presenta come una ipotesi comoda; nell’antichità non ebbe fortuna, mentre fu accolta favorevolmente da molti critici moderni. Solo pregiudizi dottrinali e questioni letterarie avevano portato alcuni studiosi a dubitare della paternità apostolica dell’Apocalisse; tali opinioni rimasero circoscritte alla scuola di Antiochia e alla chiesa di Siria; tutte le altre comunità cristiane, invece, secondo la generale testimonianza dei Padri, greci e latini, attribuivano pacificamente l’Apocalisse all’apostolo Giovanni, autore del IV Vangelo.


La critica moderna
La critica moderna ha ripreso le osservazioni di Dionigi ed ha elaborato, con grande fantasia, una immensa gamma di soluzioni possibili. Il problema riguarda i rapporti fra le singole opere del NT attribuite a Giovanni: il IV Vangelo, le tre Lettere e l’Apocalisse. In base a presunte differenze linguistiche e teologiche fra l’Apocalisse ed il IV Vangelo molti esegeti hanno negato l’identità dell’autore ed hanno proposto le ricostruzioni più disparate. Le innumerevoli opinioni possono essere schematicamente riassunte così:

  • 1) L’Apocalisse ed il IV Vangelo hanno lo stesso autore:
    • a) è l’apostolo Giovanni;
    • b) è un altro autore a noi sconosciuto.
  • 2) L’Apocalisse ed il IV Vangelo sono opere di autori diversi:
    • a) l’Apocalisse è di Giovanni, il IV Vangelo di un altro autore;
    • b) il IV Vangelo è di Giovanni, l’Apocalisse di un altro autore;
    • c) i due scritti sono opere di autori diversi e sconosciuti.

Tutte queste proposte si basano unicamente su osservazioni letterarie di confronto e sono quindi, inevitabilmente, soggettive: la giungla di opinioni conferma l’eccesso di soggettivismo critico. Il confronto attento delle due opere sul piano linguistico e teologico arriva a notare reali punti di divergenza, ma anche molti punti di convergenza; nessuna osservazione, soprattutto, è oggettivamente probante per una distinzione di autori. L’autore dell’Apocalisse, inoltre, presentandosi come Giovanni, dimostra una notevole autorità nei confronti delle comunità cristiane a cui si rivolge: difficilmente un anonimo discepolo avrebbe visto accettare nella comunità cristiana un libro così strano e difficile. E solo una persona molto conosciuta e stimata può permettersi di non dire chi è; basta il nome di Giovanni e tutti lo riconoscono.

Affermare l’unità dell’autore secondo i dati tradizionali non risolve i problemi delle divergenze; ma non li risolvono nemmeno le soggettive ipotesi dei vari critici. La spiegazione del «fenomeno giovanneo» deve seguire altre strade più costruttive.

Il luogo e la data di composizione
Per avere un quadro generale della situazione, è necessario chiarire anche il tempo ed il luogo in cui l’Apocalisse è stata composta. L’opera stessa ci informa solo sul contesto «domenicale» e sulla residenza di Giovanni a Patmos. Come spiegare il soggiorno su quest’isola? E in quali anni collocarlo?

L’informazione più antica ci viene da Ireneo, che colloca la composizione dell’Apocalisse «alla fine del regno di Domiziano» (81-96). La data non è troppo tardiva per l’apostolo Giovanni, giacchè lo stesso Ireneo afferma per due volte che Giovanni, il discepolo del Signore, visse fino al tempo di Traiano (98-117). Lo storico Eusebio conferma questa data, l’apostolicità dello scritto e la notizia della condanna subìta dall’autore; inoltre, nella sua Cronaca egli colloca l’esilio a Patmos e la composizione dell’Apocalisse nel 14° anno di Domiziano, cioè nell’anno 94/95. La tradizione della condanna e della liberazione di Giovanni, pur senza nomi e date precise, è testimoniata dagli apocrifi Atti di Giovanni (circa 150), da Clemente Alessandrino e da Origene.

L’indicazione dell’isola concorda con una informazione di Plinio il Vecchio, secondo il quale Patmos veniva usata abitualmente dai Romani come bagno penale. Il diritto penale romano conosceva bene la «deportatio in insulam», ma il semplice confino era una pena riservata alle grandi personalità; nel caso di Giovanni deve essersi trattato di una condanna ai lavori forzati o, quanto meno, alla detenzione in isolamento. E’ difficile immaginare in questo ambiente e in questa situazione la reale stesura dell’opera apocalittica: forse il dramma di Patmos ha offerto l’ambientazione propizia per la riflessione cristiana sul senso della storia. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare un precedente, forse lungo, lavoro comunitario e liturgico che, nel momento della condanna, ha trovato la sua autenticazione e nel periodo seguente ha dato origine al testo definitivo. La comunità di Efeso resta, comunque, l’ambiente vitale in cui la tradizione giovannea si è sviluppata ed ha prodotto le sue opere letterarie.

I destinatari e lo scopo
Per esprimere la risposta cristiana di fronte al dramma della storia all’interno della celebrazione liturgica, l’autore ha scelto il genere letterario apocalittico, perchè ai suoi tempi si presentava come uno strumento conosciuto e largamente diffuso, spesso adoperato per consolare i fedeli in momenti di travaglio, per spiegare il senso degli avvenimenti e per rinforzare la speranza in tempi migliori.

Il modello letterario e simbolico che ispira l’Apocalisse di Giovanni è senza dubbio il libro di Daniele, nato durante i terribili anni della persecuzione di Antioco IV Epifane (167 -164 a.C.). La comunità dei fedeli in quella drammatica circostanza si era trovata di fronte ad una situazione tragica: un tiranno prepotente ne minacciava la fede, la città santa ed il suo tempio erano profanati, le autorità religiose di Israele corrotte e conniventi con il potere avversario non davano nessun affidamento; solo un piccolo gruppo di devoti si opponeva al nemico per difendere la fede, appoggiandosi unicamente alla potenza di Dio. L’Apocalisse di Daniele mirava appunto a confortare questi fedeli e ad incitarli nella resistenza, assicurando loro un imminente intervento divino.

Alla fine del I sec. d.C. Giovanni si accorge che la sua comunità sta vivendo una situazione storica molto simile a quella dei chassidim dell’epoca maccabaica: è minacciosa l’ombra del tiranno romano che pretende di essere adorato come una divinità, il fascino della cultura pagana conquista molti fedeli, mentre Gerusalemme non esiste più e la classe dirigente di Israele è ormai decisamente contraria al gruppo cristiano. Se il dramma della storia si ripete, deve anche ripetersi la coraggiosa testimonianza dei fedeli, con la loro resistenza pacifica, fondata unicamente sulla fiducia in Dio.

I destinatari diretti sono, dunque, i membri della comunità giovannea, residente ad Efeso e nelle altre città indicate all’inizio dell’opera stessa; il numero simbolico di sette, evocando la totalità, lascia, però, presupporre un intento di destinazione universale, cioè a tutte le chiese. In entrambi i casi, lo scopo a cui mira l’autore, insito nel genere apocalittico, è la consolazione, l’incoraggiamento e la formazione spirituale e teologica.

Un punto molto importante, però, distingue la visione teologica di Giovanni da quella di Daniele: gli apocalittici del giudaismo, infatti, attendevano per il futuro l’intervento decisivo di Dio e lo annunciavano imminente; mentre la comunità giovannea afferma con solennità che l’intervento decisivo e definitivo di Dio nella storia si è già realizzato con Gesù di Nazaret, morto e risorto, Signore della storia, vivo nella sua Chiesa. 

Il punto decisivo è proprio questo: il mistero pasquale del Cristo è il fondamento della fede cristiana e quindi oggetto principale di ogni celebrazione liturgica e chiave di lettura di tutta la storia, passata presente e futura.

L’Apocalisse, dunque, cioè la rivelazione di Gesù Cristo, è primariamente celebrazione della Pasqua, inno liturgico ed annuncio della Risurrezione avvenuta, evento centrale della storia di salvezza, anello di congiunzione fra l’inizio e la fine, passaggio necessario dalla maledizione del peccato alla benedizione della vita con Dio.