Riflessioni
Sembrano necessarie a questo punto due considerazioni di carattere generale.
La prima riguarda il motivo del silenzio che, da parte sia cattolica che protestante, ha circondato le argomentazioni esposte dagli studiosi sopra ricordati e da alcuni altri, i quali, con contributi circoscritti, hanno anch’essi proposto datazioni più alte di quelle comunemente accolte dalla critica. Questa tendenza ad ignorare gli sforzi di quanti esplorano la possibilità di modificare il quadro comunemente accettato è dovuta alla volontà di lasciare immutati gli equilibri esistenti in seno alle chiese e nei rapporti tra queste e il mondo scientifico.
Tali equilibri, in campo sia cattolico che protestante, sono il risultato di processi lunghi, che hanno risentito dell’evoluzione delle rispettive chiese e anzi hanno contribuito essi stessi al processo evolutivo, anche se, ovviamente, con intenti diversi. Si potrebbe osservare perciò che, in campo protestante, la resistenza a prendere in considerazione qualunque ipotesi di datazioni alte per i vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento nasce dall’esigenza di lasciare intatto il lasso di tempo considerato necessario dai teologi, specialmente da Bultmann in poi, per la formazione e la elaborazione della teologia della comunità primitiva, in particolare per l’ellenizzazione del giudeo-cristianesimo originario e per svincolare Gesù di Nazaret dal suo ambito profetico giudaico e rivestirlo degli attributi di divinità redentrice.
In campo cattolico la resistenza nasce invece da pregiudizi intorno ai metodi storico-critici: indagini che non tengono conto del concetto di ‘tradizione’ e che procedono in modo indipendente dal magistero della chiesa non possono trovare spazio.
La seconda osservazione riguarda un fenomeno alquanto diffuso nella pratica della ricerca scientifica, e cioè il condizionamento che la diversa formazione degli studiosi esercita sull’approccio ai problemi.
Si è visto che George Edmundson, storico e matematico, ricostruiva sequenze cronologiche anche complesse partendo dai dati noti e collocandole in un quadro di riferimento costituito da documenti appartenenti a diverse tipologie.
John Robinson, teologo liberale, partiva dai risultati raggiunti dai predecessori per fermare l’attenzione sia sulla temperie spirituale degli ambienti e dei momenti storici individuati, sia sulle diverse mentalità che in quei momenti si fronteggiavano.
Jean Carmignac, ebraista ed esperto del giudaismo del primo secolo, seppe rilevare la matrice linguistica ebraica di buona parte del materiale utilizzato dagli evangelisti, mentre il suo oppositore Pierre Grelot impostava le contro-argomentazioni sui principi propri di un neotestamentarista osservante dell’ortodossia cattolica quale egli era.
Altri studiosi, non passati in rassegna, e che pure sono giunti a risultati non diversi da quelli sopra ricordati, hanno obbedito a loro volta a criteri ancora diversi: confessionali, sociologici, propagandistici e così via.
Alla base di queste due osservazioni c’è una constatazione, che vale per gli studiosi di oggi come per i padri della chiesa antica e che può contribuire in parte ad una spiegazione del fenomeno rilevato: sono pochi i cristiani e i cristianisti che conoscono l’ebraico in un grado sufficiente per servirsene con autonomia di giudizio e a pieno titolo nei propri studi, e altrettanto pochi sono gli ebrei e gli ebraisti che hanno una effettiva e non condizionata padronanza della Fachprosa del greco ellenistico e imperiale.