Gli inizi

All’indomani del 14 aprile dell’anno 30, un gruppo di uomini e donne si trovavano chiusi all’interno di una abitazione: il Maestro che avevano seguito e con il quale avevano condiviso avventure e disavventure nei precedenti tre anni di vita era stato appena crocifisso e sepolto all’interno di un sepolcro nuovo posto in un giardino accanto al Golgota (Gv 19,41).

In questa condizione di “lutto e pianto” (Mc 16,10) ma soprattutto di paura per la concreta possibilità che qualcuno di loro, in quanto seguace del condannato, fosse a sua volta imprigionato o addirittura messo a morte, uscirono all’improvviso di casa e, sfidando il sinedrio, cominciarono ad annunziare in Gesù la resurrezione dai morti (At 4,2). Nemmeno le prime peripezie (Pietro, Giovanni e altri apostoli vennero più volte arrestati) che condussero ben presto alla prima persecuzione ai danni dei seguaci di Gesù avvenuta nel 36 d.C. con la morte di Stefano, un addetto alla mensa comune del gruppo dei discepoli, riuscirono a fermare la predicazione di questi uomini, che anzi ottenevano risultati concreti estremamente positivi.

Cos’è che fece spalancare le porte a queste persone e sfidare la morte che per altro colpì molti di loro negli anni a venire? Gli scritti che forniscono le notizie sopra menzionate aggiungono che tutto ciò è avvenuto perché il loro Maestro è apparso loro dopo la morte e ha mostrato di essere il Figlio di Dio, infondendo loro il coraggio necessario per diventare “ministri della parola” (At 6,4).

Da un punto di vista razionale, la spiegazione fornita negli scritti neotestamentari è inaccettabile, indipendentemente dal fatto che sia storicamente non accertabile: tuttavia, evitando il confronto con gli eventi descritti nessuno è riuscito a fornire mai una versione dei fatti che renda giustizia di questo repentino cambiamento nell’azione degli apostoli e dei discepoli. L’ipotesi che migliaia di persone si siano lasciate abbindolare e abbiano sacrificato la propria vita perché un giorno hanno ascoltato sulla pubblica piazza declamare un romanzo scritto a tavolino non regge alla più elementare verifica critica: Gesù infatti non si proclamò Messia, ma fu riconosciuto tale e predicato come tale soltanto a posteriori, a seguito di un evento ben determinato.

Nel I-II secolo d.C. di sedicenti Messia che apparvero sulla scena della storia di Israele ne troviamo tanti: nessuno di questi però ebbe un così vasto numero di seguaci tale da valicare ben presto i confini nazionali. La messianicità di quel Gesù non può essere incanalata in nessuna messianicità così come si conosce dall’Antico Testamento e il fatto che migliaia di Ebrei l’abbiano ugualmente riconosciuto come tale deve necessariamente prevedere un evento imprevisto e imprevedibile, un evento assolutamente inaudito in grado di modificare le percezioni sedimentatesi in secoli di storia e letteratura.

Lo stupore che colpì la prima generazione di discepoli purtroppo non può essere materia di indagine storica, la quale invece può analizzare soltanto i fatti che quello stupore produsse.

Il primo fatto è, come detto in precedenza, la predicazione di quegli eventi inauditi: nel periodo immediatamente seguente alle apparizioni del Signore Risorto, gli Apostoli dovettero proclamare il nuovo senso che Gesù Cristo aveva dato alla morte e alla vita. Questo kerygma viene ricordato anche da Paolo di Tarso (1Cor 15,3-5), che cita la morte “per i peccati” e la risurrezione “il terzo giorno” in ciò che anche lui aveva ricevuto. Per quale motivo la prima predicazione si fermò soltanto a questo evento, per quanto centrale fosse? Gli apostoli si trovavano a predicare nei giorni, mesi, anni immediatamente seguenti alla morte di Gesù: la sua attività pubblica l’aveva portato in tutti i maggiori centri dell’Israele antico prima di approdare a Gerusalemme; è evidente che le persone che lo avevano sentito parlare non avevano bisogno di essere istruite su ciò che Gesù aveva insegnato ma soltanto su ciò che gli era successo al termine della sua vita terrena, per il semplice fatto che mentre alla sua predicazione assistettero migliaia di persone, ciò che venne dopo la morte fu appannaggio di pochi.

In questo primo periodo, la predicazione apostolica fu esclusivamente orale: il loro Maestro non lasciò nulla di scritto né vi fu qualcuno che ebbe la briga di tenere un diario delle sue parole. D’altronde, nell’ambiente giudaico accanto alla Legge Scritta vi era un filone di insegnamenti che faceva capo alla cosiddetta Legge Orale, un filone che discendeva direttamente dai Maestri o Rabbì di timbro o ascendenza farisaica, ai quali doveva in qualche modo appartenere anche Gesù, sebbene non ufficialmente.

Questa Legge Orale fu messa per iscritto soltanto dopo molto tempo, agli inizi del III secolo d.C., quindi è comunque di per sé sorprendente che i seguaci di Gesù misero privatamente per iscritto la sua Parola già nel giro di un paio di decenni, fornendo a tali testi quel necessario carattere di autorità all’interno della già vasta comunità cristiana.

Si è ricordato all’inizio il motivo che probabilmente spinse alcune persone a comporre i primi testi: quando però ciò avvenne? Secondo una opinione comune, i testi apparvero soltanto con la seconda se non addirittura con la terza generazione di discepoli, poiché gli apostoli erano illetterati se non analfabeti (At 4,13) e non sentivano il bisogno di mettere nulla per iscritto. Questa spiegazione però appare deficitaria per almeno due motivi: il primo riguarda il passo citato di Atti che si riferisce ai soli Pietro e Giovanni, ma ad ogni modo questo non significa che fossero ignoranti. Pietro infatti prima di seguire Gesù guidava una piccola impresa peschereccia, di tipo familiare, sulle sponde del lago di Gennezareth, presso Cafarnao: ma era originario di Betsaida (Gv 1,44), che letteralmente significa “casa di pesca”, un villaggio che il tetrarca Filippo elevò al rango di città sul finire del I secolo a.C.3 e che dunque doveva rivestire una certa importanza in quell’area geografica.

Filippo era un ellenizzante che cercò di favorire in tutti i modi la cultura greco-romana: la sua regione era caratterizzata da influssi culturali di varia provenienza e dal plurilinguismo. L’elemento ellenistico nel quale si ritrovò a vivere la famiglia di Pietro è evidente dai nomi dei due fratelli: Simone è nome di origine greca così come Andrea.

Simon Pietro dunque nacque e crebbe in un ambiente nel quale la buona conoscenza tanto dell’aramaico quanto del greco erano fondamentali anche per portare avanti la sua piccola attività commerciale, conoscenza probabilmente acquisita presso la locale scuola elementare, che impartiva ai bambini del luogo le necessarie capacità a leggere, scrivere e memorizzare, capacità tese in massima parte alla lettura e comprensione del testo biblico.

Nella Grecia l’uso di scuole per insegnare a ragazzi del posto era diffuso da diversi secoli, e almeno per i maschi l’accesso era abbastanza generalizzato: coloro che potevano permettersi un pedagogo privato erano ovviamente in pochi. In ogni caso, anche se non si volesse accettare la tesi di Pietro piccolo scolaro, è evidente che il giudizio dato dai sinedristi negli Atti è in realtà un pregiudizio da loro rivolto non tanto a Pietro quanto agli originari della Galilea (allo stesso modo anche infatti verso Gesù, che però nei Vangeli dimostra di saper parlare con gente di lingua greca) e più in generale a coloro che non avevano ricevuto la loro istruzione da altri farisei.

Tra gli apostoli vi era per altro anche un certo Matteo, che il vangelo a lui attribuito dalla tradizione ricorda come “pubblicano” (Mt 9,9), cioè esattore delle imposte, quindi una persona perfettamente in grado di saper leggere e scrivere sia nella lingua del posto (ebraico/aramaico) sia in greco/latino (quest’ultima lingua ufficiale dell’amministrazione romana, dalla quale Matteo dipendeva), oltreché benestante (chiamato da Gesù a seguirlo, tenne subito un banchetto al quale invitò molte persone): doveva dunque essere persona in grado, se non proprio di padroneggiare, quanto meno di utilizzare tre lingue ai fini della sua professione.

Dunque, il gruppo degli apostoli era perfettamente in grado di mettere per iscritto ciò di cui era a conoscenza, tanto quindi dei fatti quanto delle parole di Gesù: in ogni caso, è molteplicemente documentato nell’antichità l’uso di scribi (generalmente schiavi o liberti) che scrivevano sotto dettatura, come nel caso di molte lettere di Paolo e dello stesso Pietro.

Se gli apostoli non misero nulla per iscritto fu in definitiva per loro scelta: semplicemente non ne sentirono il bisogno, la memoria orale era più che sufficiente per il kerygma da annunziare. Non lo sentirono dunque immediatamente: ma dopo qualche tempo cominciarono a circolare testi scritti legati alla loro predicazione.

Tuttavia questi testi non sono giunti a noi: si presume la loro esistenza per via di considerazioni di carattere letterario. Nel Vangelo secondo Marco la sezione riguardante la Passione di Gesù che, come fin qui detto, è stato il tema della prima proclamazione apostolica, occupa oltre un sesto del libro (Mc 14,1-16,8) e presenta una dovizia di particolari assolutamente estranea al resto del testo: questa situazione ha fatto pensare che prima dei Vangeli come sono conosciuti fosse stato messo per iscritto il kerygma pasquale, al quale furono aggiunte le vicende legate alla morte: un vero e proprio “Vangelo della Passione e Resurrezione di Gesù”, un testo autonomo e concluso in se stesso.

Sugli anni nei quali cominciò a circolare questo testo non si possono che fare supposizioni: viste le pesanti accuse rivolte verso Anna e Caifa che fino all’anno 36 erano a capo del Sinedrio, e alle colpe di Pilato, anch’egli in carica fino all’anno 36, è probabile che sia stato l’ultimo terzo degli anni 30 (segnatamente a partire dal 37) a veder circolare nella comunità cristiana e non solo i primi brogliacci contenenti le copie di tale testo.

L’occasione potrebbe anche essere stata generata dalla partenza di gran parte dei discepoli di Gesù, in quello stesso anno 36, per sfuggire alla persecuzione che si era scatenata contro di loro a Gerusalemme: essendo rimasti in città soltanto gli apostoli, che dovevano occuparsi in tal modo di tutti i problemi legati alla comunità, tali scritti potevano fungere da aiuto alla predicazione.

Non è escluso che i motivi che spinsero a comporre questo testo (la cui diffusione potrebbe essere stata frenata dalla presenza fino al 36 dei personaggi sopra menzionati) siano da ricercare anche nella vicinanza con la comunità essena di stanza a Gerusalemme: cristiani ed esseni avevano diversi punti in comune e, sebbene sia del tutto fuorviante cercare di far discendere Gesù da questa scuola poiché troppi sono gli elementi che dividono i due sistemi di predicazione, vivendo molto vicini nel quartiere, potrebbero aver ragionato comunemente su alcuni temi.

In particolare, la datazione dei testi di Qumran, buona parte dei quali attribuiti proprio agli esseni, dimostra che questi ultimi ebbero una produzione letteraria piuttosto vasta, ma cosa più importante, avvertirono molto presto la necessità di mettere per iscritto il loro sistema di pensiero: questo per il semplice motivo che attendevano come imminente l’avvento della Luce.

Come dimostrabile anche da alcune espressioni evangeliche, tale imminenza era avvertita anche nella comunità cristiana, con l’avvento a breve termine del Regno di Dio. Soltanto con il Vangelo secondo Luca (che in ciò riflette l’atteggiamento di Paolo) tale spasmodica attesa comincerà ad attenuarsi: questo significa che per buoni trenta anni gli apostoli lavorarono e predicarono come se il tempo a loro disposizione fosse relativamente ristretto. Tale situazione ha fatto ritenere a molti che non vi fosse il necessario intento perché si iniziasse a scrivere, ma l’esempio esseno (oltre alla logica) è lì a dimostrare il contrario, e la vicinanza in Gerusalemme delle due comunità potrebbe aver spinto i cristiani ad emularli.

Quando, con il passare degli anni, sempre più “uomini nuovi” (cioè uomini totalmente estranei alla vicenda terrena di Gesù della quale nulla conoscevano) si accostavano alla predicazione cristiana, i discepoli si trovarono di fronte ad una nuova questione: non era più sufficiente raccontare l’evento pasquale a chi già conosceva Gesù, ma bisognava anche descrivere, all’inizio per somme linee, i principali avvenimenti della sua vita affinché fosse chiaro quell’evento alla luce delle sue parole. Nascevano così “racconti di compimento”, “detti profetici”, narrazioni di miracoli, controversie sulla Legge, tutte quelle pericopi letterarie che costituivano singoli episodi della vita di Gesù e che negli anni a venire sarebbero state raccolte e opportunamente collegate dagli evangelisti.

Inevitabilmente, nel momento stesso in cui tale predicazione ebbe luogo, iniziò quel processo teologico di revisione della stessa vita di Gesù, alla ricerca degli episodi più significativi per l’evento pasquale successivo, e anche dei destinatari delle sue parole: per molti anni infatti la predicazione apostolica fu quasi esclusivamente rivolta a uomini di origine ebraica fedeli alla legge mosaica.

Il passaggio che portò la Parola anche agli uomini di cultura pagana non fu indolore, giacché vide contrapporsi alla comunità di Gerusalemme due delle figure più eminenti del proto cristianesimo, cioè Pietro (l’apostolo per eccellenza in At 10) e poi Paolo (l’apostolo delle genti), tant’è anche ancora nel 49 si discuteva, non senza dissapori, delle modalità con le quali i pagani dovevano accostarsi alla fede in Cristo Gesù (At 15).

La tradizione ecclesiale tramandò ben presto (già con Papia sul finire del I secolo) che a comporre il primo vangelo fu, come detto, l’apostolo Matteo, seguito poco dopo da un certo Marco che ottenne da Pietro il permesso di mettere su carta (in quel tempo il supporto più comune era la carta di papiro, meno costosa e di più facile fabbricazione rispetto alla pergamena) la sua predicazione.

I testi canonici che sono giunti fino ai giorni nostri molto probabilmente costituivano una parte della letteratura che i primi discepoli misero per iscritto: indizi di questo assunto ci giungono non solo dal prologo del terzo Vangelo, che cita esplicitamente tali testi, ma anche da una serie di considerazioni di critica letteraria che hanno fatto capire come tanto il Vangelo secondo Matteo quanto il Vangelo secondo Luca dipendano almeno da un’altra fonte diversa rispetto al Vangelo secondo Marco, ritenuto essere il primo della serie.

Si trattò di una fonte scritta che gli studiosi chiamano “fonte Q” (dal tedesco Quelle = fonte), che viene generalmente classificata come una raccolta di detti e parole di Gesù, nel migliore dei casi condita da scarni elementi biografici sulla sua attività pubblica. Il motivo per il quale venne composta questa raccolta dovette probabilmente rispondere a necessità di predicazione: quando, dopo l’evento pasquale, gli apostoli e i discepoli di Gesù cominciarono a girare il mondo allora conosciuto per portare a tutte le genti la buona novella, si rese necessaria la scrittura di un canovaccio sul quale, coloro che non avevano assistito de visu all’opera di Gesù, potessero impostare la propria predicazione.

Ci si trovò di fronte insomma alla necessità di supportare quelli che con una espressione moderna potremmo chiamare “predicatori erranti”: come Gesù inviò gruppi di discepoli a preparare la strada al suo arrivo, così dovettero fare gli apostoli. Negli Atti viene espressamente citato un qualcosa di simile, sebbene avvenuto in un contesto diverso: a seguito della persecuzione che portò alla morte di Stefano, la Chiesa di Gerusalemme venne dispersa nelle regioni della Giudea e della Samaria e «quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio» (At 8,4). Più avanti nel testo viene poi ricordato come questi uomini giunsero fino alle terre della Fenicia, di Cipro e di Antiochia, dove venne fondata la prima chiesa per pagani convertiti e dove i seguaci di Gesù ricevettero il nome che li avrebbe resi famosi agli occhi della storia, cioè appunto “cristiani”.

È evidente che tutte queste persone, i sette sopra menzionati ma anche i gruppi di discepoli che erano partiti da Gerusalemme, dovettero avere in mano un piccolo rotolo di testo contenente i loghia gesuani anche come aiuto per coloro che per la prima volta ascoltavano la Parola.

Sia come sia, qualunque fossero i motivi base che spinsero i primi cristiani a comporre i vari testi che circolavano nell’antichità, una cosa è certa: eccezion fatta per le epistole, i quattro Vangeli spiccano nella letteratura antica per il loro anonimato volontario. Ma i nomi che la Chiesa tradizionalmente attribuisce loro, hanno un qualche fondamento, una qualche validità storica? Chi furono i quattro uomini che ebbero l’idea di comporre un libro sulla vita di un Gesù di Nazareth che credevano essere il Cristo morto per la loro salvezza? È possibile collegare questi uomini a precise figure apostoliche?