Epistolario di Pietro e Giuda
Passando ad esaminare le epistole di Pietro e l’epistola di Giuda, Robinson osserva che 1 Pt. è pervasa dal motivo della minaccia di una persecuzione e mostra un parallelo con la situazione accennata in Mt. 5, 11, ma il quadro politico che presenta è anteriore a quello raffigurato nell’Apocalisse: i sacrifici all’imperatore non sono menzionati come un problema, e le parole semplici di 1 Pt. 2, 17 («Rispettate tutti, amate i fratelli, abbiate il senso di Dio, rispettate l’imperatore») sarebbero impensabili al tempo di Domiziano o di Traiano. 1 Pt. 4, 16 («Se uno tra voi soffre come cristiano, non se ne vergogni: glorifichi anzi Dio con questo nome, poiché è venuto il tempo dell’inizio del giudizio della casa di Dio») si adatta al tempo immediatamente precedente la persecuzione neroniana: ‘immediatamente precedente’, perché le parole di 3, 13 («Chi potrà nuocerci se voi sarete ferventi nel bene?») non avrebbero potuto essere scritte se la persecuzione fosse già stata in atto. Il materiale della lettera si presenta dunque come un’omelia destinata in origine alla comunità di Roma, poi riutilizzata più volte e infine destinata, in forma di epistola, alle comunità dell’Asia Minore, probabilmente nella primavera del 65.
La teologia di 1 Pt. mostra caratteristiche di grande antichità: la dottrina trinitaria formulata a 1, 2 non è sviluppata; le ordinazioni sacerdotali sono di tipo arcaico; la responsabilità della sorveglianza (ejpiskoph è attribuita ai presbiteri (5, 1 s.: «Esorto i vostri presbiteri...: pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato, sorvegliandolo [ejpiskopou'nte"] non per costrizione, ma di cuore secondo Dio»). L’autore non conosce una distinzione netta tra la prima e la seconda venuta del Cristo (1, 20; 4, 17). Anche il tono della lettera sembra a Robinson un indizio valido di antichità (4, 10 sui carismi; 4, 17 s. sulla fine imminente; nessuna allusione ad eresie in atto).
Robinson ritiene di poter prendere anche posizione sulla paternità dell’opera, osservando che l’autorità che l’ha dettata è apostolica, e che difficilmente si giustificherebbe la ragione per una falsa attribuzione a Pietro: in 1 Pt. non sono combattute eresie, non sono sostenuti determinati sistemi dottrinali, non vengono dettate regole per la vita della chiesa. All’obiezione relativa alla mancanza di addentellati col Pietro storico, Robinson contrappone 5, 1 («Io, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che si manifesterà»), riferibile, a suo giudizio, all’esperienza della trasfigurazione.
L’epistola di Giuda esprime preoccupazione per una minaccia religiosa, morale e dottrinale: l’autore e i destinatari sembrano essere membri di una comunità giudeo-cristiana in ambiente ellenistico, per cui la minaccia potrebbe essere costituita dal giudaismo gnosticizzante. Mancano indizi propri del cristianesimo del secondo secolo, come il ministerio ecclesiastico organizzato e l’episcopato monarchico, mentre il termine agape indica ancora l’assemblea eucaristica. I vv. 9 e 14 citano la Assunzione di Mosè e 1 Enoch non ancora sospettati come apocrifi. I vv. 17 ss. citano l’insegnamento apostolico ancora come orale.
Anche la seconda epistola di Pietro è giudeo-cristiana, e, come Iud., presenta addentellati concettuali e lessicali con le epistole pastorali (pivsti", swthvr, eujsevbeia, ejpivgnwsi"); lo stile è asiano. Il dualismo non è materiale o metafisico, ma morale ed escatologico.
Attacca i libertini (2 Pt. 2, 19 s.) come i nicolaiti di Apoc. o quelli di Corinto; altri bersagli polemici sono i mythoi (1, 16), l’angelologia, le genealogie (lo stesso fenomeno si osserva nelle epistole pastorali). Da tali osservazioni Robinson deduce che la presa di posizione di 2 Pt. non è contro le eresie del secondo secolo, ma contro il giudaismo gnosticizzante.
Robinson aggiunge altre osservazioni che non provano una datazione al primo secolo, ma neanche obbligano a spostare 2 Pt. al secondo: 1, 12-18 allude alla trasfigurazione con un linguaggio che non deriva dai sinottici e che sarà ripreso da Apoc. Petr.; il vocabolo ajpovstoloi usato con riferimento ai missionari; le problematiche apparentemente attribuibili a una seconda generazione cristiana sono invece già note alla raccolta di detti usata da Matteo e Luca, cioè la cosiddetta fonte "Q" (cfr. ad es. Mt. 24, 28 // Lc. 12, 45); 2 Pt. 3, 15 s. parla di Paolo e delle sue lettere, ma chiama l’apostolo «caro fratello», come si usa con i contemporanei viventi (cfr. Phlm. 16; Act. 21, 20, ecc.), e dice ejn
pavsai" ejpistolaiv" senza articolo («in ogni [sua] lettera»), come se l’apostolo fosse ancora in vita.
Esaminate nel loro complesso, osserva Robinson, 1-2 Pt. e Iud. non sembrano parlare dei problemi fondamentali che la chiesa affrontò nel passaggio dal primo al secondo secolo: il chiliasmo, la gnosi, l’episcopato monarchico, la persecuzione domizianea, la rottura con la sinagoga. La sequenza che allo studioso sembra più probabile è: Iud. – 2 Pt. – 1 Pt. (in tal caso le parole di 2 Pt. 3, 1: «Questa, carissimi, è già la seconda lettera che vi scrivo» si riferirebbero non a 1 Pt., ma a Iud.). Le prime due lettere sono indirizzate (probabilmente nel 61/62) a giudeo-cristiani minacciati non da persecuzione ma da eresia, 1 Pt. è indirizzata a cristiani del mondo ellenistico minacciati non da eresia ma da persecuzione (primavera del 65).