Lavori Artigiani
Cestaio
E' l'artigiano esperto nel creare cesti di pagliai e di vimini, fondamentali per molti lavori dei campi e nelle case contadine. Con mani sapienti, i cestai intrecciavano questi cesti. Il materiale veniva reperito durante il mese di agosto, lungo i greti dei torrenti, e messo ad asciugare al sole. Il tipo di lavorazione dipendeva dall’uso che del cesto si intendeva fare: ad esempio, il cesto usato per portare il letame nei campi veniva intrecciato in modo grezzo e rado, mentre quelli destinati a contenere alimenti o cose minute, venivano fittamente intrecciati. In verità, non si trattava di un vero e proprio mestiere, quanto piuttosto di un’abilità comune a molti contadini che vi si dedicavano nei momenti di pausa e riposo. Oggi è difficile trovare chi costruisce cesti, soprattutto perché questi manufatti, non più indispensabili, sono diventati meri oggetti da collezione ed elementi decorativi nell’arredamento.
Fabbro
Un mestiere tipico della civiltà contadina, sia per la produzione di attrezzi da campagna che per ferrare i quadrupedi. Per quest’ultima attività ci voleva bravura, serietà e oculatezza, altrimenti si metteva a repentaglio l’incolumità della bestia, l’interesse del proprietario e, soprattutto, il proprio buon nome. Prima di tutto produceva decine di ferri per i quadrupedi da soma e da tiro, che metteva esposti su una lista fissata al muro, nella bottega, a seconda delle diverse misure. Quando arrivava il contadino per cambiare i ferri al suo mulo, l’artigiano, con il grembiule di pelle, per prima cosa toglieva i ferri vecchi e poi, tagliava le unghie eccedenti, le spianava, quindi, applicava il ferro nuovo, che inchiodava con la dovuta precauzione e precisione per evitare che i chiodi, oltrepassando lo strato d’unghia, andassero a ledere la parte viva dello zoccolo. In tal caso, avrebbe azzoppato la bestia. Dopo, con la tenaglia, tagliava le punte dei chiodi che venivano fuori e il resto lo ripiegava sullo zoccolo stesso. Per lavorare il ferro, l’artigiano lo immergeva sotto la brace di carbon fossile sino a che si arroventava e diventava malleabile. Quando si trattava di un pezzo consistente da spianare e ridurre a piastra sottile, su quel pezzo intervenivano contemporaneamente due e, se necessario, tre operai (il mastro e due lavoranti), che, con una cadenza ritmica, frenetica e precisa, battevano con la mazza sullo stesso punto senza scontrarsi. L’incudine su cui si lavorava era ben piazzata su un grosso tronco d’albero pesante, difficilmente spostabile. Oltre che per l’incudine, la bottega si caratterizzava per la presenza della fucina a mantice, azionato con un pedale da un apprendista. Il fabbro cominciava a lavorare la mattina presto e il suono dei suoi colpi si diffondevano in tutto il paese. Aveva a che fare con tutti, perché numerosi erano gli attrezzi che costruiva per altri lavoratori: aratri, martelli per muratori, picconi, falci, zappe, scalpelli, paramene, scuri, ecc.
Sellaio
Il territorio del Montefeltro è costellato da laboratori di piccoli artigiani, che sviluppano la loro passione, difendendo un patrimonio di conoscenze che rischiano di perdersi. Come quella del sellaio… antico mestiere ormai in disuso e sopravvissuto solo grazie alla produzione di finimenti per cavalli da corsa. Quando era un mestiere diffuso, il sellaio preparava in modo artigianale e professionale finimenti per cavalli curando anche la consegna diretta ai contadini. I materiali usati erano il cuoio, la paglia e il legno. Il pagamento avveniva di frequente in natura con uova, pollame e frutta. Questa attività era svolta da modesti artigiani che lavoravano soprattutto nei paesini dove più immediato era il contatto con le popolazioni rurali. Malgrado ciò e malgrado le modeste dimensioni si è attuata una selezione lasciando solo quelli più esperti che, come tanti lavori, si tramandavano di generazione in generazione. Il lavoro principale consisteva nel fare le cosiddette "collane" per i cavalli. Si lavorano paglia, crine vegetale (anche riciclandolo da vecchi materassi) e cuoio; mentre gli attrezzi del mestiere sono robusti aghi, filo speciale e vari attrezzo da taglio. Le selle non sono l'unico prodotto, ci sono anche scarponi, zaini e cinturoni. Utili accessori per la caccia e per l'equitazione, insomma. Lo stile è sempre quello maremmano. Veniva fatto una specie di vestito cucendo il cuoio con il sacco e riempiendolo di paglia; veniva poi data la forma e venivano attaccati dei legni della misura del collo del cavallo. La parte con la tela costituiva l'interno della sella, a contatto con il collo per assorbire il sudore dell'animale. Il cuoio invece era all'esterno sia per motivi estetici, ma soprattutto perché era un elemento duraturo a contatto con le intemperie. C'è un piccolo laboratorio artigiano a Pianello di Cagli, ove cuoio, crine vegetale e paglia sono le materie prime lavorate. Qui opera Maurizio Nicoletti, un sellaio appunto (come esso stesso si definisce). Il suo mestiere consiste nel confezionare (o riparare) selle per cavalli in stile Maremmano. Ovviamente la produzione è tutt'altro che industriale: "Si lavora piú che altro su commissione - ricorda l'interessato - ovviamente per un pubblico di appassionati. Il lavoro è talmente tradizionale che impiega anche nove giorni prima di portare alla luce una sella. I clienti sono sempre soddisfati, ed io anche, visto che, oltre a fare ciò che mi appassiona, capisco che mantengo in vita la memoria di mestieri che andrebbero altrimenti perduti. Pensate che in Italia siamo rimasti in quattro a svolgere questa attività". Gli acquirenti provengono da tutta Italia, particolarmente dalla zona di Roma. "Solitamente parto dal nulla. Oppure da una semplice imbottitura di crine" – ha dichiarato Nicoletti - testimonianza della profonda maestria acquisita nel corso degli anni. Il crine è un tessuto resistente e morbido al tempo stesso, utilizzato per imbottire i materassi dei nostri nonni, in mancanza di materiale piumoso. Non sono mancate in passato occasioni in cui il Sig. Nicoletti ha messo a disposizione degli interessati la sua maestria, con l'obiettivo di diffondere e preservare nel tempo conoscenze e capacità purtroppo in estinzione.
Apicoltore
Diventare apicoltore non é una decisione ma é una passione che spinge verso il mistero della natura e della sua capacità di perpetrarsi ed evolversi. Molti professionisti sono prima divenuti apicoltori amatoriali. Il loro passaggio alla professione, come scelta di vita, presenta tanti rischi e incertezze. Per essere "iniziati" all'apicoltura servono, oltre alla passione, le api, l'attrezzatura, un luogo idoneo. Per localizzare una zona adatta al posizionamento del nostro apiario, dobbiamo tener conto della biologia degli insetti. Necessitano di fioriture nell'arco delle stagioni entro 3 km. di distanza ( non qualsiasi fioritura, ma specie produttrici di polline e nettare abbondante), una sorgente d'acqua, un
luogo soleggiato ( in estate magari riparato da qualche pianta a foglia cedue), non troppo ventilato.
Falegname
I falegnami del passato lavoravano tutto a mano. A mano segavano le assi, a mano inchiodavano. Quando si trattava di lavori pesanti, come portoni, armadi, eccetera, bisognava mandare giù grosse viti, che dovevano penetrare profondamente nel legno, con il cacciavite a mano. E finché si trattava di legno d'abete poteva anche passare, ma quando si trattava di castagno, noce o altro legno bisognava mettercela tutta, specie se erano viti grosse e lunghe. Di sudore ne colava parecchio.
Fornaio
Il fornaio era un lavoro semplice, senza molte complicazioni, umile e faticoso che, tuttavia, richiedeva esperienza, tanta esperienza e assiduità. Quando il forno veniva riaperto per sfornare il pane caldo, appena cotto, si diffondeva nell’aria e tutt’intorno il profumo e la fragranza di cose buone. I nostri fornai svolgevano un’attività molto faticosa, conducevano una vita modesta, umile, ma quanta capacità, quanta esperienza e attitudine ci mettevano per far sì che dal loro forno venisse fuori un pane ben cotto e senza alcun difetto, soprattutto senza bruciature.
Ceramista
Un tempo il mestiere doveva rispondere prioritariamente alle esigenze della vita quotidiana. Tali esigenze erano quelle di conservare, cuocere, trasportare ogni tipo di bevande, liquidi e alimenti. Ogni oggetto aveva dunque una sua destinazione d’uso ben definita. Nel nostro territorio vi fu un forte sviluppo di questo tipo di artigianato, poiché l’argilla era facilmente reperibile e, grazie alla presenza di boschi che fornivano tutta la legna necessaria, anche facilmente cuocibile. Il ceramista per realizzare i suoi oggetti impastava la terra, la sgrassava con segatura e con combustibili minerali e modellava la pasta con le mani e il tornio, oppure usando degli stampi, o ancora per fusione. Il tornio del ceramista è solitamente verticale ed è costituito da un’asse che collega un piatto circolare superiore con un disco inferiore in legno che viene fatto ruotare con i piedi, dandogli la velocità necessaria per far “montare” il pezzo.
Tessitrice
Sono ormai molti decenni che questa attività nata per esigenze familiari, ebbe man mano sviluppo e notorietà. In tutti i paesi della valle si svolgeva la tessitura con la lana delle pecore. La tessitura a telaio era praticata in molte famiglie infatti molte di queste avevano nelle loro abitazioni il telaio. Le tessitrici con il loro lavoro rinnovavano un rituale di passaggi e intrecci, colpi ritmati che, visti da fuori, assomigliavano ad una antica danza. Il telaio era di legno ed era un attrezzo di origine antichissima, un po’ complesso e di una certa grandezza; era costituito da quattro ritti, tenuti insieme da altrettanti raccordi trasversali. Nella parte bassa, a pochi centimetri dal suolo, si trovavano due lunghi pedali collegati da una corda e da regoli mobili uniti a loro volta a tanti fili provenienti da un asse.
Polentari
Il granoturco, meglio conosciuto come mais (Zea Mais), è un importante cereale utilizzato nell'alimentazione zootecnica, abbondantemente modificato e migliorato dalla genetica tanto da credere che ne esistano due specie in natura: quello ibrido (proveniente dagli stati Uniti) e quello "nostrano". Ed è a questa seconda qualità che ci rifacciamo, visto che dalla macinatura di questi chicchi proviene la Polenta, piatto povero ma ricco di storia, ed in effetti i primi piatti di polenta hanno una origine molto lontana risalente alla scoperta del fuoco, da parte dell'uomo, e quindi alla relativa cottura di questo alimento. Tanto basta per dire che attraverso le varie tradizioni regionali si può ricostruire l'origine storica dei nostri popoli. Le origini della polenta sono incerte e, la leggenda narra che un cavaliere crociato, reduce dalla Persia portò con se, a Venezia, alcuni chicchi di questo cereale che fu, dapprima benedetto e poi seminato. Con più certezza possiamo affermare che la storiografia racconta di Cristoforo Colombo, al quale, una volta sbarcato in America, furono offerti, da parte di principi e sacerdoti Maya e Aztechi, pannocchie e chicchi di granoturco ben cucinate. Oggi, questo piatto ricco di tradizione e storia, è ancora tramandato da padre a figlio sia nel modo di cucinarlo che per i condimenti abbinabili (e sono molti) ha portato la polenta, nella ricetta tradizionale, ad essere un piatto molto prelibato e molto richiesto anche da popolazioni straniere.
Tartufai
Giacobbe, secondo taluni, fu il primo esperto di tartufi (terfeziacee); egli visse circa 1600 anni prima di Cristo,dopo di lui vennero,i Greci,i Traci e i Libici. Il tartufo ottenne la consacrazione gastronomica vincendo nel IV secolo avanti Cristo il primo premio di un concorso gastronomico ad Atene con il piatto "Pasticcio Tartufato alla Chiromene". Keripe conquistò onore e fama per la sua capacità di cucinare i tartufi e per aver introdotto nuove ricette. Da cibo per ricchi a soggetto di studio il passo fu breve;il primo studioso che si occupò di tartufi fu senza dubbio Teofrasto, (filosofo greco che morì nel 287 a.C. discepolo di Aristotele), che lo considerava una pianta priva di radici circondata dalla terra, senza nessun filamento, prodotto dall' unione della pioggia con il tuono nelle grigie giornate autunnali. I romani consideravano moltissimo le terfeziacee, tanto che Nerone lo considerava cibo degli Dei. Naturalmente, la ricerca dei tartufi va effettuata con il cane, raccogliendo il tartufo solo dopo che il punto esatto di crescita è stato segnalato dall'animale. E' deleterio infatti scavare o vangare più o meno a caso nelle tartufaie conosciute alla ricerca dei tartufi,perchè si distruggono le radici e quindi le tartufaie stesse. Quando è possibile occorre togliere il tartufo con le mani, oppure con il vanghetto, usando tutte le avvertenze possibili per non scavare buche troppo larghe e soprattutto senza distruggere le radici presenti. Una volta cavato il tartufo, è indispensabile richiudere a regola d'arte la buca fatta con la stessa terra originaria. Occorre rispettare i periodi di raccolta,ed è opportuno rispettare le norme emanate e vigilare invitando ad osservarle,una buca lasciata aperta non è un fatto personale fra il trasgressore e la legge, ma rappresenta una diminuzione nella produzione tartuficola della zona nei successivi anni.
Carbonaio
Scoprire i segreti del carbonaio è affascinante. Un lavoro duro, desideroso di presentarsi al grande pubblico, turisti compresi. Un mestiere che non conosce orari, che affonda le proprie origini in un passato trascorso nei boschi. Un mestiere oggigiorno nobile, possibile solo per pochi esperti, abituati al sacrificio. Un mestiere pieno di fascino, capace di mantenere viva l’economia di alcune zone Montane, come Stiamo parlando del carbonaio. L’origine del mestiere del carbonaio sembra affondare le proprie origini in questioni di necessità. Il carbone infatti, è vantaggioso rispetto il legame, è più facile da trasportare e sviluppa un potere energetico maggiore. In porzioni del Territorio ove l’agricoltura non è redditizia, la produzione del carbone è una attività fondamentale. Praticamente tutti siamo rimasti affascinati dai carbonai, una conoscenza che è diventata un must per turisti curiosi. Tra l’autunno e la primavera, si procede con il taglio del bosco. Querce e Carpini sono le essenze maggiormente impiegate, in quanto considerate “forti”. Sono ritenuti meno pregiati i legni “dolci”, come castagni, tigli e olmi. Questa classificazione, tramandata attraverso esperienze dirette, risulta essere avvalorata da solide basi scientifiche, tanto che si è coniato un apposito termine: il “forteto”, che indica un bosco pronto per il taglio e destinato alla produzione di carbone. Il taglio del bosco, viene effettuato oggigiorno dal carbonaio stesso, mentre un tempo era specifico compito del boscaiolo. A conferma di quanto le pratiche produttive possano influire sulla origine delle parole, consideriamo la “metrata”: ossia una catasta di un metro di altezza, tipica forma di raccolta delle legna. A questo livello del ciclo produttivo del carbone, si manifesta la grossa differenza tra moderne e tradizionali pratiche di lavorazione. Infatti, un tempo il carbone veniva prodotto direttamente in montagna, in prossimità del taglio. In tempi più recenti invece, il legname è stato trasportato a fondovalle, dapprima a dorso di muli, poi con l’ausilio di mezzi meccanici. L’intero ciclo prende almeno 4-6 giorni di intenso lavoro, durante le quali l’operatore dorme in più riprese e per poche ore, governando almeno 2-3 carbonaie. Per essere carbonizzata la legna viene sistemata ordinatamente in senso circolare attorno ad una canna fumaria (la “buga”, che determinerà buona parte della stabilità della catasta e della riuscita del processo. Nella zona di Borgo Pace si utilizza la tecnica dei quattro pali al centro della “piazza” della carbonaia. Completato il cilindro centrale, ecco che occorre dare forma alla catasta. Vengono presi a tal proposito, legni di uguale calibro che vengono appoggiati secondo un andamento circolare, con la cura di lasciare il minimo spazio tra legno e legno. La catasta è completata quando la base ha raggiunto un diametro di 4-5 metri e una quantità di legname utilizzato di 150-200 q. A questo punto si procede alla copertura con uno strato di paglia e di terra, la cosi detta “camicia”. La carbonaia viene accesa gettando della brace nella canna fumaria, poi si chiude la “buca” con una pietra piatta. Il fuoco, va rimboccato con pezzetti di legna al fine di diffonderlo alle parte più lontane dal centro. Nei giorni successivi, il carbonaio segue passo passo la “distillazione” del legname, egli deve infatti limitare il tiraggio, assicurarsi che la combustione non prenda piede e che non si formino crepe nella camicia. Come è facilmente comprensibile infatti, il segreto della buona riuscita del carbone risiede nell’instaurarsi della combustione anaerobica, non si vuole di certo un falò! La distillazione avviene di solito tra il secondo e il quarto giorno (o notte, il carbonaio non ha infatti orari) ed è facilmente riconoscibile attraverso l’emissione di un fumo azzurrognolo. A questo punto, occorre praticare dei fori tutt’intorno al cono, con l’obiettivo di carb izzare anche gli strati inferiori della catasta. Conclusa la distillazione, i carbonai “somondano”, ossia gettano terra sul carbone, e lasciano raffreddare per 8-10 ore. Prima dell’alba inizia il vero e proprio “sforno”, procedendo con cautela, verso il cuore della catasta, facendo attenzione a non rompere i legni carbonizzati. La sfornatura assomiglia ad uno spettacolo da tragedia: fumo denso, odore acre, cigolio di tizzi e brace luminescente. L’ultimo passaggio del duro lavoro del carbonaio consta nel suddividere il carbone in varie pezzature e si riempiono i camion. E’ collocata nell'edificio di una conceria dismessa la documentazione fotografica realizzata da Pier Paolo Zani sulla vita e sul lavoro dei carbonai. Le foto di Zani rappresentano un singolare documento antropologico sul mondo dei carbonai, una attività ancor oggi praticata nel comune di Borgo Pace e in altre zone degli Appennini dove ancor oggi si produce il carbone di legna.
Cappellaio
Questa attività raggiunse il massimo splendore alla fine dell'800. In questo periodo a Saltara sorsero le più grandi fabbriche di cappelli: quella dei Diambri e quella dei Curina. I cappelli prodotti erano di lana e di pelo di coniglio o di lepre. Il cappello di lana era il più richiesto perché costava di meno mentre quello di pelo era più caro, infatti veniva usato per le grandi occasioni. Le tinte più richieste erano: il grigio, il nero ed le varie tonalità di marrone. Le materie prime utilizzate nella manifattura dei cappelli erano il pelo di: coniglio, lepre, capra e pecora. Dopo la scelta delle pelli migliori, si passava alla disrognatura, cioè si ripuliva il pelo dalla polvere e dalle impurità. Era poi il momento del segretaggio, cioè le pelli venivano strofinate con una spazzola di cinghiale. La successiva feltrazione consisteva in una serie di operazioni che portavano ad ottenere un feltro, a cui veniva data la forma di un cono. Diversi i momenti della lavorazione: follatura, formatura, tintura, lucidatura, bordatura fino a giungere alla rifinitura che era la fase finale della manifattura del cappello. Una volta pronti, i cappelli venivano portati nelle fiere e nei mercati a primavera per essere venduti. Sia i Diambri che i Curina raggiungevano i luoghi più lontani delle Marche e della Romagna contraddistinguendo i loro prodotti con Marchi di produzione. Verso il 1930, sfumato il progetto di una grande fabbrica Diambri-Curina, da costruirsi a Calcinelli sul Metauro. Oggi a ricordare gli artigiani, sono la via dei Cappellai ed un piccolo negozio situato in via Mazzini, di proprietà di una antica famiglia di cappellai.
Cordaio
Il mestiere del cordaio era molto importante nel periodo che seguì la seconda guerra mondiale, quando nella vallata del Metauro l'attività principale era l'agricoltura. Un tempo i lavori agricoli non venivano praticati con mezzi meccanici, bensì utilizzando buoi e mucche che trainavano l'aratro, il carro... Perché la loro forza producesse il risultato richiesto, gli animali venivano appaiati con gioghi. Per regolarne l'andatura si utilizzavano delle corde che venivano collegate agli animali mediante un anello (muraglia) in un punto sensibile, quello delle narici. Così l'agricoltore poteva frenare o sollecitare i due buoi. Per lavorare la corda, era innanzitutto necessario che il cordaio avesse a disposizione una certa quantità di canapa. Questa pianta, una volta raggiunta la maturazione, veniva tagliata, legata a fasci e consegnata al cordaio. La canapa veniva portata presso corsi d'acqua e lasciata macerare. Quando si era ammorbidita veniva battuta con forza. Era poi messa ad asciugare dietro i pagliai e passata al "canapino", attrezzo formato da tanti aghi metallici che serviva a pettinarla. La canapa era così trasformata in fili sottilissimi che venivano uniti e si otteneva così un filo di corda più grosso e compatto che si passava alla "grande ruota". Al centro di questa, su di un lato, una manovella (fatta girare da ragazzi in età scolare o da donne), sull'altro invece venivano applicate le forme. Si faceva quindi girare la ruota e la corda veniva allungata lungo un sentiero. All'estremità della corda, un uncino che era sistemato ai fianchi di un ragazzino, il quale si allontanava dalla ruota man mano che si formava una corda. La corda era quindi arrotolata ed era pronta per essere venduta.