In Cielo e Ritorno

NDE:Esperienze di morte e ritorno in vita

I N D I C E

1991 Pamela Reynolds


Ci sono solo pochi casi in cui la perdita di ogni attività cerebrale sia stata così accuratamente documentata. Quello che segue è un esteso racconto della NDE di Pamela Reynolds, come descritta dal cardiologo Michael Sabom.

Anche Pamela è stata intervistata a lungo nel programma della BBC 'The Day I Died' (Il giorno in cui morii). Dato che la sua NDE si verificò nel corso di un intervento di chirurgia cerebrale, quando l’attività della corteccia cerebrale viene costantemente monitorata, il suo è un buon esempio di una NDE durante una perdita accuratamente documentata della funzione cerebrale.

Pamela Reynolds era una madre di trentacinque anni molto impegnata nel suo lavoro, che si era fatta un nome come cantautrice. Nel 1991 si ammalò gravemente. Iniziò a soffrire di vertigini, di episodiche perdite dell’uso della parola e di difficoltà nel muovere il corpo. Il suo medico le prescrisse una TAC che evidenziò un gigantesco aneurisma di una delle arterie cerebrali vicine al tronco encefalico.

Un aneurisma è una specie di pallone in un punto indebolito di un vaso sanguigno, non troppo diverso da una bolla nella camera d’aria di una bicicletta. Se l’aneurisma scoppia, e il rischio di questo evento è altissimo, un’emorragia cerebrale sarebbe immediatamente fatale. Fu inviata da un neurologo che le disse che le sue probabilità di sopravvivere erano minime. Ma c’era un’ultima speranza per Pamela.

Contattò il Barrow Neurological Institute di Phoenix, Arizona, a più di due mila miglia da casa sua. Il neurochirurgo dottor Robert Spetzler del Barrow Neurological Institute decise di operarla, anche se le sue possibilità di sopravvivenza erano minime. Tutto quanto accadde durante la sua operazione fu accuratamente registrato.

Durante l’intervento la sua temperatura corporea fu abbassata a circa 10° C. Era collegata a una macchina cuore-polmone a causa della perdita completa dell’attività elettrica cardiaca (arresto cardiaco), che si verifica sempre durante una ipotermia severa. Tutto il sangue era stato tolto dalla sua testa. L’attività elettrica della corteccia cerebrale (EEG) e del tronco encefalico (“potenziali evocati” tramite click di 100-decibel emessi da piccoli altoparlanti inseriti nelle orecchie) era tenuta sotto costante osservazione; in entrambi i casi non c’era attività di nessun genere.

Durante l’intervista nel documentario della BBC, Spetzler spiegò: «Quello che stiamo vedendo è l’aneurisma che aveva, e che è proprio alla base del cervello. Questa palla può scoppiare e causare un’incredibile catastrofe nel cervello della paziente. Ecco perché questo caso era particolarmente difficile… quello che vogliamo fare è fermare il cervello. Non vogliamo che il cervello dorma. Vogliamo che il metabolismo cerebrale si fermi. Ogni output misurabile che il corpo emette scompare davvero completamente cosicché non resta alcuna attività misurabile di alcun genere. Prima che l’operazione abbia inizio vengono svolte una serie di attività. Il paziente viene addormentato, gli occhi vengono chiusi con dei pezzi di cerotto, e in ciascun orecchio vengono posti dei piccoli strumenti che emettono dei click per monitorare il cervello. Il paziente poi viene completamente coperto; l’unica parte che resta scoperta è l’area della testa su cui lavoriamo».

E Sabom sottolinea: «Durante l’arresto, il cervello di Pam risultò morto in tutti e tre i test clinici – l’elettroencefalogramma era silente, le risposte del suo tronco encefalico erano assenti, e non vi era flusso sanguigno nel suo cervello […] I suoi occhi furono umidificati per evitare che si disidratassero e poi chiusi con dei pezzi di cerotto. La paziente inoltre era sotto una profonda anestesia generale».

Il racconto di Pamela, che segue, è una raccolta di resoconti della sua esperienza pubblicati nel libro di Sabom e di brani tratti dalla sua intervista nel documentario della BBC:

«Non ricordo la sala operatoria. Non ricordo per niente di aver visto il Dr. Spetzler. Ero con un suo assistente; uno dei suoi assistenti era con me in quel momento. Dopodiché… niente. Assolutamente niente. Fino a che il suono… e il suono era spiacevole. Era gutturale. Mi sembrava di essere nello studio di un dentista. E ricordo che la sommità della mia testa pizzicava, e in qualche modo sono saltata fuori dalla cima della mia testa.

Più mi allontanavo dal mio corpo, più chiara diveniva l’immagine. Ricordo di aver visto parecchie cose nella sala operatoria quando guardai giù. Ero molto presente, più presente di quanto sia mai stata in tutta la mia vita. E stavo guardando giù il mio corpo, e sapevo che era il mio corpo. Ma non mi importava. Pensai che il modo in cui avevano rasato la mia testa era molto particolare. Mi ero aspettata che rasassero tutti i capelli, ma non lo avevano fatto. Ero metaforicamente seduta sulla spalla del Dr. Spetzer. Non era come una visione normale. Era più luminosa, più a fuoco e più nitida di una visione normale. C’erano così tante cose nella sala operatoria che non conoscevo, e così tante persone. Ricordo lo strumento nella sua mano: sembrava l’impugnatura del mio spazzolino elettrico. Avevo pensato che avrebbero aperto il cranio con una sega.

Avevo udito la parola sega, ma quello che stavo vedendo sembrava più un trapano che una sega. Vedevo anche dei piccoli oggetti dentro una scatola che somigliava a quella dove mio padre conservava le chiavi inglesi quando ero bambina. Vidi l’impugnatura della sega, ma non la vidi usare sulla mia testa: pensavo di sentire che venisse usata su qualcosa. Faceva un ronzio di un timbro piuttosto alto. Ricordo la macchina cuore-polmoni. Non mi piaceva il respiratore. Ricordo una serie di attrezzi e di strumenti che non riconobbi immediatamente. E ricordo chiaramente una voce femminile che diceva: “Abbiamo un problema. Le sue arterie sono troppo piccole”. E poi una voce di uomo: “Prova dall’altra parte”. Sembrava venire da sotto la tavola. Ricordo di essermi chiesta che cosa stessero facendo là, [ride] perché questa è una chirurgia cerebrale! Quello che stava accadendo era che avevano creato un accesso nell’arteria femorale, per drenare il sangue, ma io non lo capivo…

Sentii una “presenza”. In qualche modo mi girai, per vederla. Ed ecco che vidi un piccolissimo puntino di luce, come uno spillo. E la luce iniziò a tirarmi, ma non contro la mia volontà. Ci stavo andando in modo consenziente perché volevo andarci. C’era una sensazione fisica, come quella di salire su per una collina molto velocemente. Era come nel Mago di Oz, presa dal vortice di un tornado, solo che non giravo attorno. La sensazione era quella di salire su con un ascensore molto velocemente. Era come un tunnel, ma non era un tunnel. E andavo verso la luce. Più mi avvicinavo alla luce, più iniziavo a distinguere diverse figure, diverse persone, e sentii distintamente mia nonna che mi chiamava. Aveva una voce molto chiara. Ma non udivo la sua voce con le mie orecchie, era un udire più chiaro di quello normale delle mie orecchie. E immediatamente andai da lei.

La luce era incredibilmente brillante, come nel mezzo di una lampadina elettrica. Mi accorsi che stavo iniziando a distinguere varie figure in quella luce: tutte erano avvolte di luce, erano luce e avevano luce che le permeava tutto attorno e iniziarono a modellarsi in forme che potevo riconoscere e capire. E ho visto molte, molte persone che conoscevo, molte, molte che non conoscevo, ma sapevo che in qualche modo ero connessa a loro. E appariva… grandioso! Tutti quelli che vedevo, ripensandoci, corrispondevano perfettamente al modo in cui una persona può apparire al suo meglio durante la sua vita.

Riconobbi una moltitudine di persone. E una di queste fu mia nonna. E vidi mio zio Gene, che morì quando aveva solo trentanove anni. Mi ha insegnato molte di cose: mi ha insegnato anche a suonare la chitarra. C’era la mia prozia Maggie. Dalla parte di mio padre, c’era mio nonno. Tutti loro mi guardavano e si prendevano particolare cura di me. Non mi permisero di andare oltre. Mi comunicarono, questo è il modo migliore che conosco per dirlo, perché non parlavano come sto parlando adesso io, che se avessi percorso tutta la strada dentro la luce, mi sarebbe accaduto qualcosa a livello fisico. Non sarebbero più stati in grado di riportarmi indietro nel corpo; se mi fossi allontanata troppo non avrebbero più potuto riconnettermi col mio corpo. Perciò non mi avrebbero lasciato andare da altre parti e nemmeno fare qualcosa.

Io volevo andare nella luce, ma volevo anche tornare indietro. Avevo dei bambini da crescere. Era come guardare un film in avanzamento veloce sul videoregistratore: se ne ha una idea generale, ma i singoli fotogrammi non erano abbastanza lenti perché se ne possano cogliere tutti i dettagli; era uno scintillio continuo di immagini in sequenza ma anche contemporanee, era una carrellata degli episodi più significativi della mia vita; significativi dal punto di vista del bene e del male.

Domandai se Dio fosse la luce, e mi risposero: 'No, Dio non è la luce, la luce è ciò che accade quando Dio respira'. E ricordo di aver chiaramente pensato: 'Sono nel respiro di Dio'. A un certo punto mi ricordai che era tempo di ritornare indietro. Naturalmente avevo deciso di tornare indietro ancora prima di sdraiarmi sul tavolo operatorio. Ma, più stavo là, e più mi piaceva. Mia nonna non mi ha riportato indietro attraverso il tunnel; nemmeno mi ha chiesto di andarmene. Mi ha solo guardata. Io mi sarei aspettata di andare con lei.

Fu invece mio zio a riportarmi indietro, giù, nel corpo. Ma quando sono arrivata dove era il corpo, e ho guardato quella cosa, di sicuro non volevo tornarci perché mi sembrava davvero molto simile a quello che era: privo di vita, un involucro vuoto. Mi spaventava, e non volevo guardarlo. Sapevo che rientraci, mi avrebbe fatto male, cosicché non volevo più tornare indietro. Ma mio zio iniziò a discutere con me. Disse: 'È come tuffarsi in una piscina, saltaci dentro'. Io: 'No!'. 'E i bambini?' Io:'Tu sai zio che i bambini staranno bene'. Ma lui disse: 'Devi andare, cara.' Io ancora: 'No!'. Allora mi spinse; mi diede un piccolo aiuto.

Mi c’è voluto molto tempo, ma credo oggi di essere pronta a perdonarlo. Ho visto il corpo sobbalzare. E allora mio zio mi ha spinto, e ho sentito immediatamente un grande freddo dentro di me. Ero tornata nel mio corpo. Era come tuffarsi in una piscina di acqua gelata. E' stato molto doloroso! Quando tornai indietro, ed ero ancora sotto anestesia generale in sala operatoria, stavano suonando Hotel California, e il verso era: 'Puoi lasciare l’albergo quando vuoi, ma non puoi mai andartene davvero'. Quando ripresi conoscenza, ero ancora collegata al respiratore».

Pam conclude il suo racconto dicendo: «Penso che la morte sia un’illusione. Credo che la morte sia realmente una brutta bugia».