In Cielo e Ritorno

NDE:Esperienze di morte e ritorno in vita

I N D I C E

2011 Monica Wlilliams



Monica Williams-Murphy è un medico di medicina d'emergenza certificato che pratica presso l'Huntsville Hospital di Huntsville, Alabama, in uno dei maggiori reparti di pronto soccorso di tutti gli Stati Uniti. Il 21 gennaio 2013, ha condiviso le sue esperienze riguardanti la NDE di uno dei suoi pazienti. Ha scritto:

"Ho avuto il piacere di ascoltare una persona che è tomata da un viaggio nella morte ed è arrivata con una storia da raccontare. Anni fa, quando ero bella tonda in attesa del mio 3° figlio, durante un turno di notte arrancavo nel reparto di pronto soccorso quando arrivò un “codice rosso”. Il paziente era un giovane uomo di circa trent'anni e quando il personale paramedico arrivò dal corridoio con lui erano tutti sudati per lo sforzo delle pressioni toraciche e per la gestione delle vie aeree. Ricordo che non erano riusciti a sistemare un tubo per la respirazione durante il trasporto a causa della quantità di vomito che si era depositata nelle vie aeree dell'uomo. 

Ricordo che, a causa della mia circonferenza addominale dovuta alla gestazione, dovevo accovacciarmi come un lottatore di sumo per riuscire a vedere all'interno della sua gola, ma riuscivo a garantire la stabilità delle vie aeree mentre continuavamo la RCP. Io stavo dando gli ordini, ma tutta l'equipe cercava di capire perché era morto e cosa potevamo fare per rianimarlo. Uno dei paramedici dichiarò che pensava c'entrasse l'uso di droghe e che si trattasse potenzialmente di un caso di overdose. Allora provai altri farmaci su di lui e, a sorpresa, avevamo il polso! Dopo un “codice positivo” effettuiamo sempre una dettagliata disamina del paziente per cercare segnali e indicazioni di cosa può essere successo e cosa sta succedendo. 

Quando voltammo il giovane per esaminargli la schiena, la mia caposala, Penny, tirò via un paio di cerotti di narcotico. “Ecco il nostro problema”, disse. Tutti scuotemmo la testa in segno di disapprovazione [ . . . ] “Peccato” sospirai, mentre gli esaminavo le pupille. Nel suo esame nulla indicava che potesse sopravvivere. Non aveva segnali visibili di vita cerebrale. Nulla, mi sembrava fosse solo un corpo, con un cuore che batteva. Mi chiesi, a voce alta, se potesse donare gli organi. Non arrivò nessun familiare a vedere come stava, a sentire la mia prognosi, che mi ero esercitata a pronunciare a mente “Penso che il suo cervello sia rimasto senza ossigeno troppo a lungo. Mi spiace, ma non credo che ce la farà. Abbiamo fatto del nostro meglio e vi assicuro che non sta soffrendo”.

Lo mandai in UTI e non ebbi più notizie di lui. Fino a 6 mesi dopo. Ero di nuovo in un turno di notte molto impegnativo, era stracolmo di gente. Credo che la sala d'attesa si estendesse fino al parcheggio e mi sentivo piuttosto stressata su come io, da sola, sarei riuscita ad arrivare a tutte queste persone che avevano bisogno del mio aiuto. Mentre portavamo la ma pila di tracciati in mezzo a un corridoio di pazienti, la mia caposala, Penny, disse che era successo qualcosa di insolito al primo soccorso. Un giovane uomo che camminava con un bastone aveva chiesto dell'infermiera del primo soccorso se poteva scambiare qualche parola con me [ . . . ] Non avevo ancora attraversato la soglia che un giovane uomo sorridente si fermò a salutarmi. “Dottoressa Murphy, vedo che ha avuto la bambina, come sta?” 

Rimasi pietrificata e una sensazione spiacevole, inquietante, mi corse sulla pelle. Non conoscevo quest'uomo, non l'avevo mai visto nella mia vita (o così pensavo) e lui mi parlava in termini molto familiari di me e della mia bambina di 5 mesi.  Lo guardai in modo sospettoso. “La conosco, signore?” chiesi. Continuò a sorridere, ma si sedette, in umo sforzo visibile di allentare la mia apprensione. “Sì, mi conosce, solo che non si ricorda. Sei mesi fa lei mi ha salvato la vita. Stasera sono venuto qui per ringraziarla personalmente e per raccontarle la mia storia”.

Iniziò dicendo, in modo molto asciutto, “Ero morto e lei mi ha riportato in vita in quella stanza dall'altra parte della sala d'ingresso, alla fine dell'anno scorso”, mentre indicava la porta e correttamente in direzione della nostra sala di rianimazione. Con dovizia di particolari iniziò a raccontare gli eventi di quella sera.

“Ero diventato dipendente dagli analgesici perché lottavo con i dolori alla schiena. Quella sera avevo preso troppe pillole e avevo usato alcuni cerotti antidolorifici di mio zio.” Continuò spiegando come, in qualche modo, si rese conto di quando smise di respirare e uscì “dal suo corpo”. Raccontò di aver visto la sua ragazza che lo trovava e chiamava il 911 mentre cercava di fargli una RCP. Mi disse le parole che pronunciai e quello che dissero e fecero i paramedici non appena arrivati a casa sua. Mi disse di conoscere uno dei paramedici, una donna che piangeva e si sforzava di fare il suo lavoro, effettuare una RCP fra un singhiozzo e l'altro. 

Spiegò che aveva seguito da vicino quello che stava accadendo nel “suo corpo” e iniziò a descrivere nel dettaglio cos'era successo nella sala rianimazione del pronto soccorso. Mi disse che eravamo costernati che avessi avuto un'overdose a una così giovane età. Lui affermò che osservava Penny, la mia caposala, che lo voltava e gli tirava via i due cerotti di antidolorifico dalla schiena e la sentì dire “Ecco il nostro problema” (nota: non disse il nome di Penny, ma la chiamò “quella caposala dai capelli scuri”). Si ricordava che avevo parlato del fatto “se potesse donare gli organi”.

“Ma poi sono tornato nel mio corpo e sono sopravvissuto! Eccomi qui oggi, ma sono un uomo cambiato. Non prendo più antidolorifici. Ora, questo bastone è la mia unica medicina, la mia unica stampella, disse, facendo volteggiare in aria il suo bastone, sorridendo.

La sua storia sembrava giunta a una conclusione, ma dopo una breve pausa continuò “Ma l'unica ragione per cui sono venuto qui questa sera è per confidarle due cose”. Si fece serio. “In primo luogo, quando ero fuori dal mio corpo, quando ero morto... ho visto qualcos'altro. Ho visto che c'era una luce che proveniva da lei e dalla sua bambina”, fissava verso l'alto, in un angolo della stanza, come se visualizzasse il ricordo con un senso di meraviglia. Io lo fissai sbalordita.

Poi si girò per guardare direttamente me e con un'espressione profondamente onesta disse “Ma in realtà volevo solo ringraziarla personalmente, faccia a faccia, per avermi salvato la vita, per aver partecipato al tentativo di darmi una seconda possibilità. Le prometto, dottoressa Murphy, che non la sprecherò. Ci sono cose che mi sono successe quando ero morto, cose di cui non posso parlarle, ma ho promesso di usare la mia vita e il mio tempo in modo diverso.” [ . . . ]

Quella notte quell'uomo mi fece un regalo. Il regalo era un profondo senso di apprezzamento per la mia vita e per il regalo del tempo stesso. Di conseguenza, sono diventata molto più grata per la vita dei miei figli, di mio marito, della mia famiglia e per l'opportunità che è stata data a tutti noi di sperimentare questa cosa chiamata vita, insieme."

I suoi commenti finali: "I tre elementi che ho riconosciuto come inspiegabili da una prospettiva medico-scientifica (come la conosciamo ora) sono:

  • 1. Il paziente, dopo la rianimazione, non ha mostrato alcun riflesso pupillare e non aveva alcun riflesso orofaringeo, quindi ho pensato che il suo cervello fosse clinicamente morto nel momento in cui era sotto le mie cure, eppure ha raccontato gli eventi con incredibile dettaglio, come dal punto di vista di una terza persona.
  • 2. Mi ha detto di aver visto qual era il sesso del mio bambino prima che nascesse (una femmina), cosa che non avrebbe potuto sapere in seguito a meno che non avesse chiesto nella comunità qual era il sesso di mio figlio. Non ho messo in discussione questo fatto.
  • 3. In teoria, potrebbe aver udito ciò che dicevamo a voce alta e potrebbe averlo raccontato in seguito, ma descriveva visivamente la stanza e l' "infermiera dai capelli scuri” nel dettaglio, e anche quello che faceva quando non parlava. Questo sarebbe stato impossibile, dato che non ha mai spontaneamente aperto gli occhi e non dava segnali che i centri visivi del cervello stessero funzionando. 

C'erano circa 60 persone nell'equipe, forse di più, nel reparto di medicina d'urgenza. Inoltre ha descritto nel dettaglio ciò che gli stava facendo quella donna specifica. Non riesco a immaginare che sia stata una semplice casualità a permettergli di individuarla all'interno di un gruppo di persone già conosciute e quindi descrivere nel dettaglio ciò che faceva."